Mosè salvato dalle acque (secoda parte)

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mose-michelangeloLa bellezza di Mosè

Il nome di Mosè (ebr. Moshè) deriva linguisticamente dalla radice egizia mosi, «nascere», radice che si trova in nomi come Tutmosis (figlio del dio Thot) e Ramses (figlio del dio Ra). Per la Bibbia l’essenziale è altrove: ricordare che il nome indica l’uomo e la sua missione. Giocando sull’assonanza, il nome di Mosè viene accostato al verbo ebraico māsāh (= tirare fuori), accostamento che permette un’etimologia simbolica: «salvato [dalle acque]» (Es 2,10).

Di lui la madre vide «che era bello» (kî-tôv; Es 2,2). L’aggettivo non descrive solamente l’avvenenza o la prestanza fisica del neonato, quanto piuttosto vuole indicare una dimensione teologica. Mosè è «bello» come sono «belle» tutte le creature che escono della mani di Dio, secondo il racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco: era tutto molto buono/bello (kî-tôv)» (Gn 1,12; cf. 1,4.10.12.18.21.25). La bellezza del neonato è il segno che Dio stesso sta avviando il processo di una nuova opera creativa; nelle tenebre fosche stese sulla terra dalla prepotenza oppressione del Faraone si apre uno spazio di chiarore. In un bambino che nasce si puntualizza tutta la potenza del creatore, che sta oramai plasmando la sua nuova e singolare creatura: il popolo d’Israele. Per questo il bambino Mosè è «bello»: come sono belle tutte le creature in cui la speranza degli uomini riesce ad intravedere lo splendore luminoso della opere che nascono per intervento del Signore. A questo proposito scrive A. Bruni (Alla ricerca di Dio, 37): «Mosè è bello perché in lui dimora la luminosità, la passione, la parola orientatrice di Dio, perché, attraverso lui, la divina bellezza ritorna in compagnia degli uomini. Siamo davanti a un evento di grazia e di obbedienza, come lo sarà la bellezza di Maria, la “piena di grazia”, e di Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo, il trasfigurato davanti a Mosè ed Elia, il “Dio con noi”».

Il bambino è salvato dalle acque in una «cesta». La parola ebraica utilizzata è la stessa che indica l’arca di Noè (tēvâ), fatta anch’essa di giunco e rivestita di bitume (Gn 6,14). Il parallelo è suggestivo. Come Noè nella sua arca è stato salvato dai flutti del diluvio (capp. 6-9), così Mosè nella sua cesta è stato salvato dalle acque del Nilo. Il primo salvato, diventerà salvatore del popolo. Nel Nuovo Testamento sarà l’esperienza dei discepoli di Gesù: perché chiamati dal maestro potranno a loro volta chiamare (cf. Gv 1,43-45).

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