Il giardino di Eden: Gen 2,8-15

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YHWH-Dio mette la creatura terrestre in un giardino di «delizie» (ʿēden) che egli stesso aveva piantato:

8Poi Yhwh-Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9Yhwh-Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. 10Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. 11Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l’oro 12e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’ònice. 13Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia. 14Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. 15Yhwh-Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

Il giardino è un ambiente esuberante di vita grazie all’abbondanza di acqua (ci sono quattro fiumi) e di vegetazione. Il narratore annona poi la presenza di due alberi (cf. 2,9): quello della vita (weʿēṣ haḥayyîm) e quello della conoscenza del bene e del male (weʿēṣ haddaʿat ṭôv wārāʿ). Di conseguenza il «terrestre» non si costruisce né si conquista il suo spazio, ma gli viene donato. Questo dono comporterà anche una responsabilità declinata come custodia e come lavoro. Da tutto ciò consegue che la vita umana è un dono di Dio e l’uomo non la possiede, essa poi è una realtà ludica e nello stesso tempo precaria.

La vegetazione

La vita era iniziata con la formazione dalla terra/suolo del terrestre, continua al versetto 9 secondo il modello della differenziazione a partire dalla continuità con la terra/suolo: YHWH-Dio fa «spuntare» ṣāmat «dalla terra/suolo» (min-hāʾădāmâ) ogni tipo di albero. Il «terrestre» e le piante hanno una comune origine ma questo non significa comune identità e qualità. Infatti, si precisa subito che le piante sono in funzione della creatura terrestre: «gradito alla vista e buono da mangiare» (2,9a). Qui sono coinvolti i sensi della vista e del gusto, mentre in precedenza vi era stato l’olfatto (cf. 2,7). Riassumendo, quindi, sono tre le cose in comune tra mondo umano e mondo vegetale: il Creatore; la materia di provenienza («terra/suolo»); il mondo umano recepisce quello vegetale attraverso la «delizia» dei sensi. Più avanti ne scopriremo un quarto.

Nella seconda parte del versetto 9 l’attenzione del narratore si sofferma su due alberi: l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male. L’albero della vita (haḥayyîm) stabilisce una certa connessione con i versetti precedenti grazie all’alito di vita (hayyîm), quello della conoscenza del bene e del male è una novità assoluta [note]La duplicità dell’albero nel racconto ha fatto molto discutere i commentatori: cf., ad es., F. Vattioni, L’albero della vita, in AugR 7 (1967), 133-144; S. Moscati, Le antiche civiltà semitiche, Bari 1958, 73ss… Non ha senso domandarsi quale delle due piante fosse effettivamente al centro del giardino, perché l’affermazione mitica del «centro» come axis mundi è da intendere al di là del suo valore strettamente topografico o geografico. È vero tuttavia che si crea una certa dialettica tra i due alberi. Budde risolveva il problema eliminando l’albero della vita, in quanto a suo parere secondario rispetto al corpo del racconto, ove è essenziale solo l’albero della conoscenza del bene e del male. D’altra parte, è facile notare che vi è una duplicità di ruoli dei due alberi nella trama narrativa: infatti, la pianta della vita ricompare alla fine del racconto, esplicitando la cacciata dall’Eden come l’allontanamento dalla vita. Si tratta dunque di un secondo ruolo narrativo. Resta da vedere se questa duplicità vada risolta ipotizzando una duplicità di racconto o di tradizione, oppure ipotizzando una duplicità creata dal narratore in vista del suo scopo. Teniamo presente che nel c. 3 si parla di «albero nel mezzo del giardino» senza alcuna specificazione (vv. 2.3.5.6.11.12.17) e che i racconti mesopotamici conoscevano solo un «albero della vita». È possibile concludere che l’albero della conoscenza del bene e del male sia stato introdotto dal nostro autore per porre in racconto il suo pensiero, il cui punto generatore sta appunto nella dialettica istituita da 2,16s e 3,4s. Alonso Schökel ha posto in rilievo gli elementi sapienziali che l’albero della conoscenza del bene e del male porta con sé. Il simbolo stesso dell’albero è tipico nella tradizione sapienziale (si ricordino, ad esempio, Sir 24; Ez 17; 31; 47,12; e anche Is 5 e Sal 80). In secondo luogo, la «conoscenza del bene del male» è un tema sapienziale: Gesù ben Sira descrive il saggio come colui che conosce il bene e il male degli uomini (Sir 39,4), così come il sacerdote deve conoscere bene e male (Lv 27). Mosè propone al popolo «la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30,15) e la proposta coincide con i precetti dell’alleanza, definiti esplicitamente «sapienza e conoscenza» in Dt 4,6-8. Bene e male in questo contesto sapienziale sono un polarismo che esprime la percezione della realtà in quanto tale (cf. 2Sam 14,17.20), la cui determinazione etica definitiva spetta a Dio (1Re 3,9.12). Cf. W. Brueggemann, Genesi (Strumenti/commentari 9), Torino 2002, 67. Sugli alberi vedi anche C. Westermann, Genesis 1-11. A commentary (Continental Commentary), I, Minneapolis 1984, 211-214.[/note].

Due note sul giardino

meadow-406518_1280Per quanto riguarda il giardino sono due le affermazioni che il narratore evidenzia. La prima riguarda l’acqua che nutre il giardino con l’irrigazione: «Un fiume usciva dall’Eden per irrigare il giardino» (2,10). Vi è il richiamo alla tensione che avevamo già incontrato nell’esposizione dove da un lato si diceva che YHWH-Dio non aveva fatto piovere (2,5), dall’altro si affermava la presenza di una polla sorgiva che scaturente da sotto bagnava la faccia della terra (2,6). Con i fiume le tre parti che costituivano la cosmologia semitica sono toccate dall’acqua: da sopra c’è la pioggia; il fiume in superficie; da sotto terra la sorgente. L’abbondanza di acqua è simbolo della vita e della prodigiosa fecondità di quel giardino.

La secondo affermazione è che il giardino viene affidato alle cure della creatura terrestre: «YHWH-Dio prese dunque il terrestre e lo fece restare nel giardino per lavorarlo e per custodirlo» (2,15b). L’ultima azione del primo settenario (quella di porre il terrestre nel giardino) specifica le relazioni che da lì in avanti dovranno esserci tra il terrestre e il giardino: YHWH-Dio pose l’uomo nel giardino «per coltivarlo e custodirlo». All’uomo viene affidata una responsabilità nei confronti del giardino e questo lo toglie dalla totale passività iniziale, nello stesso tempo trova soluzione la mancanza denunciata nell’antefatto: non c’era l’uomo per coltivare la terra [note]Si potrebbe osservare che qui è chiesto all’uomo di coltivare e custodire uno spazio ben definito, quello del giardino. In 3,23 all’uomo spetterà coltivare la terra in quanto tale.[/note]. Con l’incarico di lavorare e custodire il giardino il «terrestre» riceve da YHWH-Dio un «potere» sul luogo dove è stato messo. È il quarto legame tra il mondo umano e quello vegetale: all’essere umano è chiesto di «dominare» sul mondo vegetale. Tale dominio si articola nei verbi «lavorare» e «custodire».

Lavorare e custodire

Il «lavoro» ʿăvōdâ non è affatto considerato come una punizione da parte degli dèi, come in alcuni miti del Vicino Oriente Antico [note]Nei miti di Enuma elish e di Atrahasis l’umanità è creata per lavorare e così alleviare la fatica degli dèi. Per i testi cf. G. Ravasi, ed., L’Antico Testamento e le culture del tempo. Testi scelti (Studi e ricerche bibliche), Roma 1990.[/note], né è opera prettamente riservata agli schiavi, come nella cultura greco-romana, poiché è azione costitutiva dell’essere terrestre. Vi è in esso qualcosa che afferisce alla sfera di Dio. Infatti, in ebraico il verbo «lavorare» ʿāvad, indica anche il servizio che il popolo è chiamato a rendere a Dio come conseguenza della liberazione dall’Egitto e del patto stipulato al Sinai (cf. Gs 24,14-24) [note]Cf. il testo di G. Auzou, Dalla Servitù al servizio. Il libro dell’Esodo (Lettura pastorale della Bibbia), Bologna 1976.[/note]. L’altro verbo «custodire» šāmar oltre al senso profano di «guardare», «tenere sotto osservazione» (Gen 4,9; 30,31), è comunemente usato per indicare l’osservanza e la custodia gelosa della Torah, specialmente dei comandamenti (Gn 17,9; Lv 18,5; Es 19,5; Dt 5,1.12; Ez 17,14; Sal 119,44). Infine i due verbi possono anche essere resi con un’endiade: «lavorare custodendo», per indicare che il compito dell’umanità è custodire qualcosa che non gli appartiene e che non può arrogarsi il diritto di reputarla una proprietà privata; oppure con «custodire lavorando», per sottolineare che la custodia non è un dolce far nulla ma implica anche la capacità trasformativa. Resi singolarmente o con un’endiade i due verbi non connotano alcun tipo di sfruttamento e di rapina delle risorse del giardino, al contrario esprimono idea di cura e di attenzione, vale a dire contribuiscono alla stessa bellezza e delizia del giardino.

Già si è detto che la creazione è un processo e non un dato di fatto. Per quanto riguarda il «terrestre» questo processo si era configurato come distinzione dalla terra ma senza opposizioni alla terra; ora si presenta come sovranità e dominio sulla terra/giardino ma senza tirannia. Si delinea una specie di ordine gerarchico con al vertice l’uomo che non scade in oppressione e sfruttamento. Altri tasselli saranno aggiunti.

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