La differenziazione sessuale superamento della solitudine. Gen 2,21-25

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I versetti di Gen 2,21-25 narrano della creazione della donna dalla costola del «terrestre». È l’inizio della differenziazione sessuale che permetterà alla creatura terrestre (ʾādām) di superare la sua radicale solitudine. Due nuove creature sorgono, il maschio e la femmina, le quali saranno chiamate a diventare una carne sola. In questo post ci limitiamo a commentare i versetti 21-22, ne seguiranno altri due: il primo dedicato al «cantico dei cantici» di ʾādām per la donna (Gen 2,23); il secondo al commento del narratore davanti all’opera di Yhwh-Dio (Gen 2,24-25)

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Bassorilievo, Duomo di Orvieto (IT)

I versi di Gen 2,21-25 sono incorniciati dal termine «carne» (bāsār), presente una volta all’inizio (v. 21b) e alla fine (v. 24) e due volte al centro (v. 23), mentre non compare nel resto del racconto. Anche per la creazione della donna l’azione parte da YHWH-Dio la cui presenza sfuma dal v. 23 e seguenti per lasciare campo al canto di giubilo di ʾādām e a un commento del narratore [note]Anche nel creazione degli animali la presenza di Yhwh-Dio era sfumata alla fine. Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, [Kindle edition] posizone 1925.[/note]:

21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. 25Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

Il terrestre viene consegnato al sonno/torpore: «YHWH-Dio allora fece cadere un sonno sull’uomo» (Gen 2,21a). C’è solo YHWH-Dio e solo lui opera. Il lemma ebraico tardēmâ
«torpore» non indica il sonno normale quanto un ‘sonno speciale’ prodotto da Dio e connesso con un’azione straordinaria da lui compiuta (cf. Gn 15,12; 1 Sam 26,12) [note]Cf. Wenham, Genesis 1-15, 69.[/note]. In questo modo ʾādām è passivo ed estraneo all’azione divina come all’inizio del capitolo: non è lui a «fabbricarsi» la donna su sua misura o secondo i propri desideri. Non vede Dio all’opera, per cui non potrà mai «possedere» la persona ‘altra da sé’ che gli resterà sempre un po’ misteriosa [note]Cf. G. von Rad, Genesi (Antico Testamento 2/4), Brescia 1978, 103.[/note]. In questo senso si sta realizzando quello che esprimeva in precedenza la preposizione neged nella sua accezione di ‘contro’ ((Cf. sopra commento al v. 18.)). Solo «in Dio» il terrestre potrà conoscere veramente la donna, e viceversa!

Dopo il sonno fatto scendere sul terrestre, YHWH-Dio, come un chirurgo, gli «toglie» (lqḥ) una delle costole e con essa «costruisce» (bnh) una donna. In precedenza la «materia grezza» da cui YHWH-Dio aveva tratto le creature era la terra, qui invece è l’umanità stessa. C’è quindi un salto qualitativo che sarà messo ancor più in evidenza dal fatto che quando YHWH-Dio la presenterà all’uomo, questi per la prima volta parlerà in discorso diretto [note]Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, [Kindle edition] posizione 1961.[/note]. Ma procediamo con ordine.

Della «stessa pasta»

Una delle interpretazioni tradizionali, comune sia all’ebraismo che al cristianesimo, ha letto nelle modalità con cui è stata creata la donna una sua svalutazione, ella è l’eterna seconda perché prelevata dalla carne dell’uomo, quindi un suo derivato e da lui dipendente. Ma è proprio così?

Il termine ebraico reso con «costola» è ṣelāʿ e non indica semplicemente un «fianco» o «lato» che viene tolto all’uomo — quasi si trattasse del mito dell’androgino secondo il quale Dio avrebbe creato un essere bifronte e bisessuato, successivamente separato in maschile e femminile. Indica, invece, che la donna è fatta («costruita») della stessa pasta dell’uomo: entrambi hanno la stessa natura e la stessa dignità, ed è per questo che il terrestre «maschio» può fare il suo primo discorso (Gen 2,23).

Questa ‘pasta comune’ a entrambi è la vita e la possibilità di donarsela reciprocamente e di trasmetterla. Interessante, a questo proposito, è risalire al rimando mitico cui si riferisce il testo, vale a dire al poema sumerico di Enki e Ninh¬ursag. Nell’antico poema, chiamato anche Dilmun, si narra che per guarire la costola (ideogramma TI) del dio Enki fu creata la dea Ninti, vale a dire la «signora della costola» o «della vita», dal momento che il segno ideografico TI (che in origine era disegnato con una freccia) si può leggere come «freccia», «vivere, vita, vivente», «costola» [note]Cf. ANET, 37-41a; J. Bottéro – S.N. Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia alle origini della mitologia (I Millennio), Torino 1992, 149-164. Dopo una serie di unioni incestuose, Enki sta per unirsi anche con la pronipote Uttu, ma Ninh¬ursag sembra volerglielo impedire (le linee 128-152 sono quasi illeggibili), a meno che Enki porti a Uttu una serie di frutti tra cui cocomeri, mele, uva… Enki le porta questi frutti e può quindi coabitare con lei (ll. 165-185). Da questa unione però non nacque nessun dio o dea, perché Ninh¬ursag aveva preso il seme di Enki per creare otto differenti piante (ll. 186-195). Enki le vede e ne vuole mangiare i frutti: per questo manda il suo messaggero Isimud, il dio dalle due facce (ll. 196-217). Ninh¬ursag lancia allora una maledizione contro Enki e non lo guarderà più «con l’occhio della vita». Di conseguenza, Enki cade ammalato e gli Anunnaki, i grandi dèi, siedono nella polvere, finché la volpe entra in scena con il desiderio di liberare Enki dalla malattia, riportando da lui Ninh¬ursag. Ella ritorna e pone Enki nella sua vulva, domandandogli dove senta dolore. Tra le parti doloranti c’è la costola (ll. 240-278). Per la guarigione di ciascun membro malato Ninh¬ursag ha pensato di far nascere un dio o una dea. A proposito della costola si inserisce il dialogo che a noi interessa: – Cos’è che ti fa (ancora) male, fratello mio? – Le costole mi fanno male! – Ebbene! Creo per te la dea Ninti (ll. 269-271). Su richiesta di Ninh¬ursag, Enki decide il destino delle divinità da poco nate: il compito di Ninti è quello di essere la «Signora dei mesi» (l. 282), cioè del tempo della vita.[/note]. La donna, quindi, è tratta «dalla parte vitale» di ʾādām o ne è la sua parte vitale; ha quindi in sé la capacità di «donare la vita». Questo è confermato anche da Gen 3,20, dove il nome proprio «Eva» ḥawâ le viene dato perché «madre dei viventi» (ʾem kol-ḥāy). Ciò che interessa al narratore biblico, allora, non è tanto richiamare la materialità del fatto quanto, attraverso il linguaggio simbolico, evocare il senso della dignità (stessa pasta) e del valore («donare la vita») della donna, a sua volta portatrice di valori (essere il «tu» dell’uomo; Gen 2,23-25).

Il dono di Yhwh-Dio all’uomo

Dopo aver «rinchiuso la carne» al posto della costola (Gen 2,21b) — simbolo di una «mancanza», di una «nostalgia», di una «ferita» che comunque resterà — e dopo aver «costruito» la donna, YHWH-Dio, come un paraninfo, «la conduce all’uomo» (Gen 2,22b). È chiaramente una ripresa dello schema visto a proposito della creazione degli animali (Gen 2,18-20). Quello che però qui manca è la proposizione all’infinito «per vedere come…» (Gen 2,19b.c) che viene sostituita dal canto di giubili dell’uomo in discorso diretto. Al terrestre perciò non viene concesso di conferirle il nome e quindi di esercitare un potere su di lei, ma egli con il suo canto poetico è chiamato a riconoscere una presenza che è sul suo stesso piano «osso delle mie ossa, carne della mia carne».

Nella creazione delle piante e degli animali le azione divine si sono configurare come estrinseche all’uomo perché la materia grezza è stata presa dalla terra, con la differenziazione sessuale l’azione divina è intrinseca: da ‘una’ carne, grazie al «costruire» divino, ne sono risultate ‘due’. Di conseguenza il nuovo terrestre non è più identico al precedente. Certamente c’è la continuità nell’unica umanità ma quello che il testo qui sottolinea, è che con la differenziazione sessuale accade una discontinuità. Tutto ciò è ancora più evidenziato da una novità assoluta: ʾādām fa il suo primo discorso diventando un soggetto, acquisendo anche una competenza poetica che da qui in avanti sarà una delle prerogative dell’uomo biblico (cf. Gen 2,23) [note]Cf. R. Tadiello, La dispersione occasione positiva di crescita, in Bibbia e Oriente 249-250 (2011), 213.[/note].

Al versetto 22 sono raccontate le ultime due azioni di YHWH-Dio. La prima è un’opera di costruzione (Gen 2,22a-b) caratterizzata dal verbo «costruire» bnh e non «creare», «fare» o «plasmare». Nelle lingue semitiche sorelle come l’accadico e l’ugaritico era il verbo usuale, ma nell’AT solo qui e in Amos 9,6 assume lo stesso senso. La seconda azione divina è quella di presentare la creatura ‘edificata’ dalla costola al nuovo ʾādām. È l’azione decisiva perché dice la bellezza e il valore della donna, vale a dire essere dono che YHWH-Dio fa all’uomo!

Il Creatore, infatti, è paragonato al padre o al paraninfo che conduce la propria figlia per offrirla in dono all’uomo che lui ha scelto per lei come marito. Ciò che desidera sottolineare il testo sacro è che tale incontro (anzi, ogni incontro tra uomo e donna) va vissuto all’interno del progetto di Dio, vale a dire nella dimensione del dono reciproco. Vengono così superati quei miti o ideologie di allora (e di oggi) che presentano l’uomo maschio come un ‘conquistatore’ e la donna come una ‘seduttrice’, per suggerire l’atteggiamento della donazione, della gratuità e dell’accoglienza reciproca. Il tu che sta di fronte ad ʾādām (ad ‘ogni’ ʾādām, sia maschio che femmina) è sempre e comunque dono di Dio!

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