Il «Cantico dei cantici» di ʾādām il terrestre. Gen 2,23

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23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».

Il versetto 23 lo si potrebbe intitolare «Cantico dei cantici» di ʾādām. L’uomo esce dalla solitudine e dall’isolamento e finalmente prende la parola per entrare nel dialogo e nella comunione, intonando il suo gioioso cantico in cui riconosce l’identità della donna e la propria.

Esclamando: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa», ʾādām riconosce nella donna una parte di sé, sottolinea la consanguineità e l’appartenenza alla stessa ‘pasta’ creaturale sperimentata attraverso la corporeità. Quest’ultima, poi, rende l’altra ‘diversa’ sia dal punto di vista sessuale che psico-spirituale. Nelle parole del nuovo terrestre maschio non c’è alcuna traccia di superiorità anzi l’espressione con cui egli saluta la donna viene utilizzata altrove per indicare una stretta parentela, una relazione profonda di alleanza, una amicizia stabile e sincera (cf. Gn 29,14; Gdc 9,2; 2Sam 5,1; ecc.) [note]Cf. W. Brueggemann, Of The Same Flesh and Bone (Gn 2,23a), in CBQ 32 (1970), 532-542; W. Reiser, Die Verwandtschaftsformel in Gen 2.23, in TZ 16 (1960), 1-4.[/note].

Ne consegue che il rapporto tra uomo e donna si sostanzia della comunione mediata dalla realtà corporea ritenuta capace di far entrare in dialogo due persone, che così superano la minaccia mortale dell’isolamento reciproco, senza ridurre l’una all’altra. Infatti va sempre ricordato la sfumatura di opposizione presente nella frase preposizionale «come/contro di lui» kenegdô. Di questa nuova esperienza Dio è testimone, presenza silenziosa ma non ingombrante.

Aggiungendo subito: «la si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta», l’uomo riconosce prima di tutto la comune radice di appartenenza facendo proprio un detto popolare che accosta il termine ʾîš «uomo, maschio, anche marito» a ʾiššâ «donna o moglie». L’omofonia tra ʾîš e ʾiššâ, che non può essere resa in italiano [note]Resa bene in altre lingue, come in latino (virvirago) o in inglese (manwoman).[/note], è solo una paronomasia che vuole esprimere la pari dignità di uomo e donna persino nel nome. Filologicamente i due lessemi provengono da due radici diverse: il primo deriva dalla radice ʾšš, che significa «essere rigoglioso, forte» [note]Cf. GLAT, I, col. 469. Per E. Jenni – C. Westermann, Dizionario Teologico dell’Antico Testamento. Volume Primo, Torino 1978, coll. 113, l’etimologia è incerta e respinge l’ipotesi della derivazione da una radice ʾšš «essere solido» (KBL, 93b) e una parentela con la radice araba ʾatta «germogliare rigogliosamente». Il termine ricorre nell’AT 2138 volte.[/note], il secondo dalla radice ʾnš, «essere debole, malato» [note]Cf. GLAT, I, col. 470. Il corrispondente maschile della stessa radice sarebbe ʾenôš. Anche per ʾiššâ Jenni – Westermann, Dizionario dell’AT I, col. 216 parla di etimologia incerta respingendo la proposta di una derivazione da ʾnš «essere debole». Il termine ricorre nell’AT 781 volte.[/note].

Il termine ʾiššâ «donna» è un sostantivo generico e qualifica il genere sessuato femminile. Non è da intendersi qui come nome proprio. Notiamo poi che esso compare nel racconto prima del canto poetico di ʾādām nelle parole del narratore quando racconta come YHWH-Dio ha fatto/costruito la donna (cf. Gen 2,22a). Ciò conferma ulteriormente il fatto che l’uomo non determina chi sia la donna ma piuttosto la riconosce in quello che Dio ha realizzato con la differenziazione sessuale.

Della donna il terrestre afferma che «è stata tratta da…». Alcune interpreti hanno letto nella forma verbale una indicazione di un’esistenza derivante dall’uomo e quindi subordinata a lui [note]Per una carellata delle opinioni cf. T.E. Fretheim, Creation, Fall, and Flood. Studies in Genesis 1-11, Minneapolis 1969, 78-79; E.C. Bianchi – R.R. Ruether, From Machismo to Mutuality: Essays on Sexism and Woman-Man Liberation, New York 1976, 12-13.[/note]. Il verbo «prendere» lqḥ è usato tre volte in questi versetti, due volte dal narratore con senso attivo (Gen 2,21b.22a) e una volta dal ʾādām con senso passivo (Gen 3,23b). Tutte e tre le ricorrenze fanno poi riferimento alla creazione della donna. Nella prima, mentre ʾādām è sotto l’effetto di un «sonno profondo», YHWH-Dio «prese una sua costola»; nella seconda si afferma che «YHWH-Dio costruì dalla costala che aveva preso dall’uomo la donna». La costola qui funzione come materia grezza alle stregua del «suolo/terra» nelle opere precedenti. Quindi la materia grezza non è la donna ma la costola prelevata da ʾādām, creatura terreste indeterminata sessualmente. È nella terza ricorrenza che si riscontra la licenza poetica e come abbiamo visto si tratta di un gioco di parole per significare la pari dignità tra uomo e donna.

Se poi indaghiamo l’uso del verbo «prendere» in Gen 3, ci accorgiamo che esso ritorna due volta sempre al passivo con riferimento ad ʾādām in quanto «preso» (lqḥ) dalla ʾădāmâ:

3,19: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane fino a quando tornerai alla terra perché da essa tu sei stato tratto (lqḥ)».

3,23: «YHWH-Dio dunque lo mandò via dal giardino di Eden perché lavorasse la terra, da cui egli fu tratto (lqḥ)».

In questi due casi l’essere tratto dal suolo (ʾădāmâ) non comporta per ʾādām nessuna subordinazione al suolo. Così anche per la nostra espressione: per il fatto che ʾiššâ sia stata tratta da ʾîš non implica subordinazione. Se applichiamo rigidamente l’analogia si potrebbe concludere che la donna è superiore all’uomo, come ʾādām è superiore alla ʾădāmâ, ma credo non sia questo il senso del testo perché l’espressione deve essere letta in armonia con il contesto dove l’uomo afferma: «ossa delle mie ossa e carne della mia carne», ciò rende inappropriata questa interpretazione. Quindi il testo afferma la reciprocità e l’uguaglianza tra la prima coppia: ne la superiorità della donna ma neppure la sua inferiorità [note]Di parere opposto: J.T. Walsh, Gen 2,4b-3,24. A synchronic approach, in JBL 96 (1977), 174, n. 32.[/note].

Di fronte alla donna l’uomo scopre finalmente la sua precisa identità maschile di ʾîš e non più del generico ʾādām, anche se il narratore utilizzerà ancora tale termine come al versettov25, fino a farlo diventare nome proprio (senz’altro in Gen 4,25). Riconosce poi alla donna la sua identità femminile di ʾiššâ. In questo modo, ʾādām (umanità) è completo nell’incontro dialogico tra ʾîš (uomo) e ʾiššâ (donna); viene così confermata la positività della bipolarità sessuale già presente in Gen 1,27. In verità, né la donna né l’uomo sono creature autonome, entrambi devono la loro origine al mistero divino. La differenziazione dalla terra, da un lato, e da ʾādām, dall’altro, non comporta né derivazione né subordinazione.

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