HomeAntico TestamentoIl tragico tentativo di farsi “dio”: Gen 3,6-7

Il tragico tentativo di farsi “dio”: Gen 3,6-7

La triplice promessa del tentatore – non morirete; sarete come Dio e conoscerete il bene e il male; i vostri occhi si apriranno – sortisce il suo effetto e la donna conosce un mutamento interiore in seguito al quale arriva a vedere ciò che prima non vedeva o, meglio, a vedere la realtà con un’ottica differente (Gen 3,6).

6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

La donna vede ora l’albero come un bene di cui un altro la vuole privare e questo è sufficiente per renderglielo desiderabile: dietro la rapacità si nasconde un’angoscia, il timore di una privazione. La donna infatti vede che l’albero è:

  • buono da mangiare
  • piacevole all’occhio
  • desiderabile per acquistare saggezza (potere) 1.

Il linguaggio è marcatamente simbolico perché non si vede con gli occhi se un frutto è buono da mangiare. Si tratta quindi di un vedere diverso è il vedere e valutare la realtà. Dubitando della bontà di Dio, la creatura umana vede le cose nel modo opposto: anche ciò che è intrinsecamente negativo, sembra buono. Il frutto poi appare «un piacere per gli occhi»: l’aspetto estetico assume un valore etico, per cui ciò che piace diventa buono. Infine, l’oggetto proibito diventa oggetto del desiderio, desiderabile proprio per una conoscenza alternativa e indipendente dal Creatore. Il testo parla di acquisizione di sapienza e quindi di potere: chi conosce, infatti, domina. Dal dubbio nasce la voglia di distacco e il desiderio matura come pretesa di dominare l’etica: in quest’ottica ‘perversa’ acquistare saggezza equivale a diventare padroni dei valori, arbitri del bene e del male.

Il narratore è estremamente sobrio nel raccontare la trasgressione, tutto è sbrigato in poche battute: «Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò». La figura della donna è emergente, ma non è colpevolizzata. L’uomo infatti non è assente al processo che ha portato alla trasgressione. Lo si nota da due elementi: la donna nel dialogo con il serpente usa sempre il plurale e in Gen 3,6b spartisce il frutto con il marito «che era con lei». L’uomo sembra piuttosto dipendente, ma in ogni caso connivente. La tradizione che individua nel frutto una mela nasce da una assonanza nella versione latina del testo tra malum e malus.

La prima conseguenza della trasgressione è la realizzazione della terza promessa del serpente: si aprirono i loro occhi (cf. 3,5). C’è una certa ironia nel testo: dopo aver mangiato all’albero della conoscenza (daʿat) del bene e del male (Gen 2,17; 3,6) per ottenere, spinti dall’astuto (ʿārûm) serpente (Gen 3,1), sapienza e conoscenza (radice verbale yādaʿ) del bene e del male (Gen 3,5), l’uomo e la donna approdano alla conoscenza (yādaʿ), ma solamente quella di essere «nudi» (ʿērummin). Avevano creduto di acquistare la conoscenza di Dio, hanno acquistato solo la consapevolezza di essere nudi; credevano di diventare dèi, si accorgono di essere solamente uomini e uomini nudi. Nel linguaggio biblico la nudità è segno di estrema povertà e quindi di perdita della dignità. Quel frutto produce una conoscenza e apre gli occhi, ma solo per mostrare il limite e la debolezza dell’umanità: perciò l’uomo e la donna, accorgendosi di come sono, non sono più capaci di accettarsi, se ne vergognano.

La presenza dell’altro sveglia la coscienza della propria miseria e la presenza di Dio diventerà addirittura fonte di paura. Non muoiono fisicamente, ma sperimentano una tragica rovina che segna la loro esistenza tanto da poterla paragonare alla morte. Per rimediare alla propria nudità non sanno fare di meglio che una cintura di foglie di fico (v. 7b). Il vocabolo ebraico reso con cintura è ḥănōrōt che indica più un perizoma che una vera cintura (1Re 2,5; 2Re 3,21; Is 3,24) 2; essa è fatta intrecciando «foglie di fico» che sono tra le foglie più grandi della vegetazione palestinese 3. È un tentativo quasi ridicolo dell’umanità di riparare al guaio fatto, un palliativo insufficiente e incapace di mettere a tacere il senso di colpa. Questa conoscenza perversa rende l’uomo e la donna incapaci di sostenere la visione l’uno dell’altro (si coprono con cinture: Gen 3,7) e di Dio stesso (si nascondono da lui: Gen 3,8.10).

Con la trasgressione la prima coppia ha perso la capacità dell’ospitalità.

  1. Cf. Bianchi, Adamo, dove sei?, 189-191; Wénin, Da Adamo ad Abramo, 74.
  2. Cf. Wenham, Genesis 1-15, 76.
  3. Cf. Hamilton, Genesis 1–17, posizione 3494.

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