Mosè senza Dio è un liberatore fallito: Es 2,11-15

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11Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. 12Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo sotterrò nella sabbia. 13Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; disse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?». 14Quegli rispose: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere, come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». 15Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo.

Il narratore informa di un salto temporale e ci presenta Mosè come un uomo adulto: «In quei giorni, Mosè, cresciuto in età». Una prima domanda potrebbe essere la seguente: che cosa è accaduto ai rapporti di Mosè con il proprio popolo? Mosè si è totalmente integrato nella comunità egizia? Il narratore non perde tempo per smentire questa possibile illazione. Infatti afferma: «Uscì verso i suoi fratelli». Volutamente qui è impiegato il verbo dell’esodo «uscire» (yāṣāʾ). Sembra che fin dall’inizio Mosè si proponga come liberatore. Questa uscita gli permette di vedere l’oppressione di Israele, anche Dio più avanti vedrà (cf. Es 2,25; 3,7; 4,31; 5,19). Mosè non è un osservatore distratto e, avendo visto l’oppressione dei suoi fratelli, prende l’iniziativa di fare quello che può in quella situazione.

La giustizia violenta di Mosè

Una volta uscito Mosè incontra un egiziano (non necessariamente un sorvegliante) che percuote un ebreo con colpi mortali. Mosè reagisce e percuote a morte l’aggressore. Egli si assicura di non essere visto, è quindi un’azione premeditata e fredda. Nasconde poi il cadavere sotto la sabbia (v. 12).

«Il giorno dopo uscì di nuovo» (v. 13): ancora una volta il narratore impiega il verbo «uscire», come al v. 11: là Mosè era «uscito» incontro ai suoi fratelli, vedendone la situazione misera; qui «esce» di nuovo, animato dallo stesso zelo. Ma ecco una svolta nella narrazione: Mosè si sente apostrofare dall’Ebreo che (secondo lui?) era in torno: «Chi ti ha costituito come capo e giudice su di noi? Pensi di uccidermi, come hai ucciso l’Egiziano?» (v. 14). Il vocabolario dei vv. 13-14 è tipicamente giuridico, vale a dire Mosè si presenta come uomo di giustizia, se la prende con quello che «aveva torto», ma la sua contro domanda lo lascia senza parole. L’Ebreo «colpevole» lo pone di fronte a un dilemma: è davvero con la violenza che si può restaurare la giustizia violata? Come puoi agire un giorno contro la legge, uccidendo un uomo – sembra dire l’Ebreo a Mosè – e il giorno dopo fartene garante? E ancora, «chi» ti ha dato questo incarico? E il dilemma si trasforma in una domanda più profonda: sono Egiziano o sono Ebreo? in nome di chi faccio tutto questo? Soltanto l’esperienza dell’esilio potrà preparare il terreno sul quale Mosè, dopo l’incontro con Dio (3,1-6) potrà ritrovare la propria identità.

Il testo non formula alcun giudizio sull’omicidio perpetrato da Mosè: come spesso accade nella Bibbia ogni moralismo è escluso. Ha fatto bene? Ha fatto male? Non è questo che interessa, né la risposta può essere univoca; il narratore mette in luce piuttosto l’ambiguità delle azioni di Mosè: egli è animato dalle migliori intenzioni, ha agito in buona fede nell’uccidere l’Egiziano, in nome della Legge nel tentare di sedare la rissa… ma il risultato del primo atto di giustizia è una nuova violenza e il risultato del secondo è una fuga e la minaccia di una violenza peggiore: il Faraone cerca di ucciderlo (v. 15). Si rinnova così la doppia domanda: serve davvero la violenza? Chi sei e chi ti ha dato questo incarico? La risposta alla prima domanda sta nella risposta alla seconda. Al capitolo terzo scopriremo come Mosè deve ricominciare da capo, accettando di essere inviato da Dio; solo Lui sarà il Salvatore di Israele; la liberazione sarà efficace solo in seguito all’intervento di Dio; la ricerca della violenza, pertanto, come soluzione di fronte alle ingiustizie, chiama solo altra violenza. Il suo esito è tragico: fuga ed esilio. Dio fino ad ora è assente: Egiziani, Ebrei, lo stesso Mosè sono immersi in un’atmosfera di violenza e di morte. La fuga e l’esilio sembrano la dichiarazione del fallimento totale del tentativo di Mosè e di ogni tentativo di liberare quel popolo dalla mano della schiavitù. Ma è su questo terreno d’esilio che il lettore viene preparato a cogliere l’ormai prossimo intervento di Dio (lo vedremo nei prossimi post).

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