Salmo 130: De Profundis

Il Salmo 130 si configura come una meravigliosa ascesa spirituale, così come lo stesso titolo evidenzia: Canto delle ascensioni (v. 1a). Il punto di partenza è la viva coscienza della colpa nell’orante, mentre l’approdo è la speranza dell’attesa e la certezza della misericordia divina, che alla fine del salmo si allarga a tutto Israele; dalla penombra incerta dell’A.T. si passa alla luce del Messia che viene a salvare il suo popolo dai peccati, egli che è il «sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Lc 1,78,79). Il salmo si può così dividere in tre parti. Nei vv. 1b-2 è presente un solenne appello introduttivo; nei vv. 3-6 si ha il corpo; e nei vv. 7-8 un’esortazione finale per Issale lo chiude.

Testo

1 Canto delle salite.
Dal profondo a te grido, o Signore;
2 Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

3 Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?

4 Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

5 Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la sua parola.

6 L’anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all’aurora.

Più che le sentinelle l’aurora,
7 Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.

8 Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

Appello iniziale

Il solenne appello introduttivo (vv. 1b-2) è un forte e accorato «grido» per richiamare l’attenzione del Signore. Nel v. 1b l’espressione «dal profondo» (mimmaʿamaqîm) è rara nella bibbia ebraica. Solo i profeti Isaia e Ezechiele la utilizzano (cfr. Is 51,10; Ez 2,7.34). Essa rievoca l’abisso caotico delle acque della creazione (Gen 1,2) e il regno dei morti. Nello stesso tempo richiama l’abisso della miseria in cui può cadere l’uomo alienandosi da se stesso e dal progetto che Dio ha su di lui. L’invocazione «o Signore» (Yhwh) che apre il v. 2 sottolinea l’accorata insistenza del salmista.

Al v. 2 c’è una ripetizione ridondante: per due volte si ripete il termine «voce» (qôl), si usa il verbo ascoltare (šamaʿ) e si ricorre all’antropomorfismo degli «orecchi» di Dio. La ripetizione del nome Signore viene letta da Gregorio Magno come un raddoppiare «l’intensità della preghiera. Questa insistenza sembra creare un diritto» (PL 79, 632).

Confessione della colpa e fede nel perdono di Dio

Il corpo del salmo, rappresentato dai vv. vv. 3-6, si divide in alcune unità minori: vv. 3-4 e i vv. 5-6. Nel v. 3 il salmista fa un’implicita confessione delle colpe e nel v. 4 esprime la fiducia nell’ottenimento del perdono; nei vv. 5-6 manifesta speranza certa nella risposta liberatrice del perdono divino.

I vv. 3-4 hanno una particolare forza persuasiva. L’orante senza giri di parole e senza accampare scuse, confessa la sua colpevolezza («Se consideri le colpe…»), ma subito vi contrappone la sua fede nel perdono di Dio («Ma con te è il perdono…»). Con l’espressione «se consideri le colpe» (v. 3) il salmista ammette di essere colpevole e perciò di meritare il castigo. Infatti «nessun vivente davanti a te [Dio] è giusto» leggiamo nel Sal 143,2. Il doppio appellativo «Signore, Signore» che traduce nel testo ebraico il nome proprio di Dio Yah = Yhwh e il suo appellativo ʾadonay «Signore», sottolinea probabilmente la propria umiltà e soggezione di peccatore davanti al sovrano giusto e santo. L’espressione «chi potrà resistere?» suona letteralmente «chi potrà stare in piedi?». Il suo significato poi non è tanto quello di esprimere volontà di esistere ma, poiché il salmo suppone un processo accusatorio da parte di Dio, l’espressione afferma che nessun uomo può presentarsi a testa alta davanti a Dio e uscire indenne dal suo giudizio. Davanti alla giustizia di Dio nessun uomo e nessuna coscienza umana possono reggere la sua giusta ira (cf. Sal 76,8; 102,27; Is 6,3-7). Il testo esprime qui una forte coscienza del limite dell’uomo dettato dal suo peccato. In questo vi è sintonia tematica con il secondo e il terzo capitolo della Genesi.

Subito dopo, v. 4, l’orante, affermando «ma con te è il perdono», lega la stessa coscienza del peccato alla consapevolezza e alla fede nella salvezza e liberazione di Dio. Nella locuzione «con te» (letteralmente: con, in compagnia di) il salmista si percepisce come un membro del consiglio di Dio cui è concesso in modo personale il perdono. Il vocabolo ebraico selîḥâ «perdono», dal verbo salaḥ «purificare, condonare», è riservato in altri due testi biblici solo a Dio (Ne 9,17; Dn 9,9). Si tratta quindi di un perdono che concede solo Dio. Qui sta a indicare che il perdono supera di gran lunga la giustizia. Nel Nuovo Testamento Gesù sarà l’inviato con il potere di rimettere i peccati. Questo sarà segno della sua divinità (cf. Mc 2,6).

L’espressione «e avremo il tuo timore» (letteralmente: «perché [tu] sia temuto») è stata oggetto di interpretazioni diverse fin dall’antichità. Il termine «timore» nella Bibbia non indica solo la «paura» o il «terrore» davanti a Dio giudice, ma esprime anche lo stupore, la venerazione e l’adorazione che scaturiscono dalla bellezza, maestà e potenza di Dio. Nel libro del Deuteronomio il timore è legato all’alleanza diventando così il principio della «sapienza» come afferma il libro dei Proverbi (cfr. Pro 1,17). Nel Salmo 130 il timore è presentato come il fine del perdono, uno dei suoi frutti. Il perdono di Dio, infatti, porta l’orante ad assumere un atteggiamento reverenziale, fatto di meraviglia e di stupore (appunto “timore”) perché fatto oggetto della bontà e dell’amore eterno di Dio. La colpa perdonata diventa motivo di lode e di riconoscimento della misericordia divina. Il riconoscimento del proprio peccato non è mai fine a se stesso, se lo fosse ci schiaccerebbe, ma sempre occasione per cantare quanto buono e misericordioso è il Signore.

La soglia della speranza

I vv. 5-6 sono carichi della speranza di un perdono certo. Essa diventa forte e certa come quella della sentinella notturna che attende il sorgere del sole del nuovo giorno. La sicurezza del perdono di Dio è sottolineata dalla duplice ripetizione del verbo «sperare» (qwh), che proprio per la sua posizione all’inizio del versetto la esprime enfaticamente, e dalla ripetizione delle espressioni «anima mia» (nafšî) e «più che le sentinelle l’aurora».
La costruzione del v. 5 è enfatica, alla lettera suona: «[Io] spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola». Il salmista spera fortemente e attende la parola, la risposta assolutrice che reca il perdono di Dio, come lo annunciò il profeta Natan al re Davide peccatore (cfr. 2 Sam 12,13).

Al v. 6 l’immagine della sentinella al mattino già di per sé suggestiva è ripetuta per due volte nel testo ebraico: «L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora. Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore». L’orante acutizza in questo modo l’attesa e la speranza. L’espressione può riferirsi sia alle guardie notturne, che aspettano l’alba per smontare dal servizio, oppure a un rito particolare presente nel tempio di Gerusalemme: il rito della «incubazione». Il rito, noto anche in Egitto, prevedeva che i leviti, i sacerdoti o l’orante trascorressero la notte nel santuario in attesa dell’oracolo divino, proferito da un sacerdote o un profeta cultuale sul fare del mattino successivo. Il significato però dell’espressione non cambia: vi è un’attesa spasmodica.

Un fraternità di perdonati

I versetti conclusivi spostano l’attenzione dall’orante a tutto Israele. È un procedimento che si riscontra anche in altri salmi. Nel Sal 130, il salmista, forte dell’esperienza personale di perdono, esorta la comunità ad attendere, con uguale speranza e fiducia nel Signore, il perdono di tutti i suoi peccati (cf. Sal 62,9). C’è un movimento dal singolo alla comunità e viceversa. L’orante ha imparato, infatti, nella comunità a conoscere il Signore e ad aver fiducia e speranza in lui, sebbene povero e peccatore. La sua salvezza personale ora viene inquadrata in quella comunitaria, mentre quest’ultima non rimane astratta ma si concretezza in quella personale.

Le parole conclusive ruotano attorno al tema della redenzione. Il vocabolo pedût, «redenzione», dal verbo pādâ, «riscattare», «liberare pagando un riscatto» presente nel v. 7, richiama il concetto di redenzione così come il popolo l’ha sperimentato nell’esodo. La redenzione è presentata come «grande» che potremmo tradurre anche con «abbondante, molta». Il salmista quindi non evoca solamente la redenzione/liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, ma anche quella che la misericordia di Dio più volte ha operato in suo favore o in favore del popolo. La misericordia (ḥesed) e la redenzione (pedût) sono rappresentate come persone che stanno «presso il Signore», in compagnia del Signore. Israele stesso ha sperimentato questi due attributi divini nella sua esperienza di esodo e di alleanza con Dio (cfr. Es 34,6; Sal 36,7; Dt 7,8).

Il salmo si chiude con la riaffermazione della certezza del perdono divino a Israele per ogni sua colpa: «egli redimerà […] da tutte le sue colpe». Le colpe che hanno causato l’angoscia profonda nel salmista (v. 3) e che l’hanno spinto alla supplica accorata, sono richiamate qui come inclusione non per annunciare castigo bensì il loro completo e assoluto perdono.

Incontri di misericordia

Nella tradizione cristiana il salmo 130 appartiene al gruppo dei salmi penitenziali ed è chiamato De profundis dalle prime parole della versione latina. Il salmo, pur essendo una lamentazione-supplica, non fa riferimento a nemici esterni, ma chiama direttamente in causa il limite e peccato personale. Molti pellegrini che salivano al tempio di Gerusalemme lo recitavano profondamente convinti che la situazione sclerotica e caotica della loro vita, ben riassunta nelle prime parole del testo, sarebbe stata rischiarata dal perdono del Signore delle misericordie.

Noi pellegrini moderni “visitiamo” i santuari a volte con il cuore gonfio e incatenato. Le parole di speranza certa che il salmo annuncia sono, quindi, per noi caparra di quella «redenzione copiosa» che Gesù, il Redentore, ci acquistò a caro prezzo e che da materne mani viene elargita a tutti quelli che confessano il bisogno di esserne ricolmati in abbondanza.

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