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La crisi di Abram di fronte al figlio che non arriva (Gen 15,1-6)

Nel ciclo dei racconti dedicati al primo patriarca Abramo sono interessanti le annotazioni cronologiche. In Gen 12,4 il narratore, sospendendo il racconto, informa il lettore che quando Abram intraprende il suo viaggio verso la terra promessa ha la bell’età di 75 anni1. La narrazione riprende raccontando l’arrivo in Canaan il suo insediamento, la carestia e una nuova migrazione in Egitto ecc. Quando il lettore giunge al capitolo 15 legge così:

Dopo tali fatti, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». 2 Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». 3 Soggiunse Abram: «Ecco quanto a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». 4 Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». 5 Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». 6 Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.

Dal proseguo del racconto in Gen 16,3 si apprende che da quando il patriarca si è stabilito in terra di Canaan sono passati oramai dieci anni. Grazie a questa informazioni diventa chiaro il motivo per cui Yhwh si rivolge al patriarca invitandolo a «non temere (אַל-תִּירָא)». Infatti all’inizio del capitolo quindici non si capisce perché ci sia questa rassicurazione divina dato che Abram è uscito vincitore contro il re Chedorlaòmer, è stato benedetto da Melchisedek, re di Salem e ha raggiunto una sorta di accordo con il re di Sodoma. Non ci sono motivi per il patriarca di temere per sé e la sua famiglia. Forse Yhwh si è accorto di una paura diversa da quella del nemico, che è annidata nel cuore del patriarca e la fa emergere?

L’imperativo divino («Non temere») è seguito da una parola divina di auto presentazione. Sono due proposizioni che colgono lo stesso fatto da due punti diversi. Infatti la prima affermazione: «Io sono il tuo scudo» esprime il punto di vista del locutore (Yhwh in questo caso); la seconda: «la tua ricompensa sarà molto grande» quello del destinatario (Abram).

Se nelle puntate degli incontri precedenti Abram si limitava solo ad ascoltare e obbedire ora qui risponde alla parola divina, dando vita al primo dialogo Yhwh-Abram. Così come è presentato l’intervento da parte del narratore, Abram parla in due momenti successivi: E disse Abram “…” (V. 2) e disse Abram “…” (v. 3).

Primo intervento (v. 2)

«Signore Signore (אֲדֹנָי יֱהוִה), che cosa mi darai? Io me ne sto andando senza figli e il figlio del coppiere della mia casa lui è di Damasco, Eliezer».

La forza perlocutoria della parola divina aiuta Abram a focalizzare con la parola la paura che si annida nel suo cuore: non sono i nemici che lo spaventano, ma lo terrorizza il non avere una discendenza. C’è una precisazione da fare: Abram non si lamenta di non avere finora avuto un figlio ma che non ne avrà più uno. La sua paura è per il futuro. E forse non è solo paura ma delusione e amarezza perché la parola di Dio per lui non è andata a buon fine. Certo Abram potrebbe interpretare la promessa di una grande ricompensa come quella di un figlio, ma i fatti lo smentiscono. Da qui allora la domanda: «Che cosa mi darai?».

A questo punto il patriarca non è più propenso ad attendere una risposta da Yhwh ecco perché formula lui stesso una soluzione, che reputa onorevole per lui e per la promessa di Yhwh: erede sarà Eliezer di Damasco. Yhwh, che ha consegnato ad Abramo i suoi nemici, non è stato in grado di donargli un figlio.

Secondo intervento (v. 3)

Soggiunse Abram: «Ecco quanto a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede».

La preoccupazione espressa dal futuro patriarca nel primo intervento non è (v. 2) è molto diversa da quella del secondo (v. 3). Tutti i dubbi di Abram si coagulano attorno al “perché” Dio non gli abbia dato la grazia di un figlio. Se c’è differenza tra i due versetti questa si registra solo a livello di vocabolario: al v. 2 il lamento riguarda la mancanza di figli («Io me ne sto andando senza figli (עֲרִירִי)»), mentre in quello successivo Dio non gli ha concesso una «discendenza» (זֶרַע), dove l’espressione «Quanto a me» (הֵ֣ן לִ֔י) è messa in prima posizione nella proposizione ebraica così da essere enfatizzata. Yhwh aveva promesso una discendenza ad Abram ed egli si vede costretto ora a scegliere un «figlio della mia casa», cioè un domestico, come erede. Nella Bibbia la ripetizione o raddoppiamento ha una funzione rafforzativa. Nel presente testo esprime la convinzione di Abram che non avrà da Dio nessuna discendenza.

Replica divina e segno (vv. 4-5)

La risposta di Dio si concentra sulla paura e delusione di Abram. Se il patriarca aveva in animo di adottare un suo servitore, la parola di Yhwh lo smentisce: «Non sarà costui», perché tale ruolo sarà assunto dalle viscere: «Colui che uscirà dalle tue viscere: questi sarà il tuo erede». Ancora una volta Yhwh parla al patriarca in modo profetico, promettendogli nel futuro un figlio. Questa promessa, pur carica di speranza, il lettore sa benissimo che cozza contro un dato incontrovertibile: la sterilità di Sarai, denunciata dal narratore in Gen 11.

Al v. 5 improvvisamente il narratore fornisce una informazione di contesto quando racconto che Yhwh conduce fuori Abramo, non specifica però “il moto da luogo”: fuori da dove o fuori da che cosa? È il lettore che deve supplire questo gap narrativo: fuori dalla sua paura, dal suo pessimismo; oppure fuori dalla situazione di sterilità in cui versano lui e sua moglie Sarai. Altro dato di contesto è la notte dato che Yhwh invita il patriarca ad uscire e a contare le stelle del cielo. La notte è il tempo non solo del sonno, ma anche delle visioni basti ricordare il sogno di Giacobbe a Betel. È un tempo di confine tra l’umano e il divino.

Alla chiamata alla conta da parte di Abram corrisponde una seconda parola di Dio incentrata sulla «discendenza» (זֶרַע). L’enfasi dal v. 4 al v. 5 passa da quell’unico che uscirà dalle tue viscere alla vastità della discendenza. Contare la sua discendenza è come tentare di contare il numero delle stelle del cielo, una metafora simile era stata quella precedente della discendenza come la polvere della terra» (13,16). Ora è chiaro che difficilmente a occhio nudo si possono contare le stelle. Semplicemente non si possono contare. È un dato di fatto. Ebbene questo dato di fatto è inversamente proporzionale alla certezza della promessa di Dio. Come il primo dato di fatto è certamente vero (Abram non può contare le stelle del cielo), così il secondo è altrettanto vero (la capacità di Dio di dare ad Abram una discendenza numerosa). Abramo è certo che non può contare le stelle e così è certo che Dio gli darà una discendenza numerosa. La conclusione divina: «Tale sarà la tua discendenza» fa da pendant all’affermazione di Abram: «A me non hai dato discendenza».

Yhwh direttamente si contrappone con la sua parola al dubbio e al pessimismo di Abram.

In risposta alle promesse divine, Abram non replica a parole ma con un fatto e cioè pone la sua fiducia in Yhwh: «E credette in Yhwh». Per la prima volta il narratore ricorre al verbo ʾāman, credere, che sarà impiegato altre due volte nel libro della Genesi (cfr. 42,20; 45,26). La forma del verbo è interessante perché non si tratta di una forma verbale di primo piano2, ma si sfondo (wᵉqatal) la quale, nella narrazione, esprime azione ripetuta. L’atto di fede di Abram descritto dal narratore non è, quindi, un’azione puntuale, una volta per sempre, ma è un’azione ripetuta e continuata: Abram non credette e basta, continuò a credere.

Giustizia

La seconda parte del v. 6 presenta una difficoltà di traduzione perché sono ambigui il soggetto, l’oggetto e il complimento di termine. La traduzione letterale del testo ebraico è la seguente: «E accreditò ciò a lui giustizia». Chi accredita? Che cosa accredita? A chi lo accredita? Se il soggetto della frase è Yhwh allora si ha: «E (Yhwh) glielo accreditò come giustizia», dove ciò che è accreditato come atto giusto è la fede di Abram. Questa è la scelta tradizionale (cfr. la traduzione della CEI). Invece se il soggetto è Abram la frase è la seguente: «Ed (Abram) gliela considerò come un atto di giustizia». In questo caso il patriarca reputa giusta, cioè valida, la promessa che Yhwh gli ha rinnovato. È un altro atto che conferma il suo credere nella parola di Yhwh.

La paura inespressa che aveva gettato il patriarca in una crisi, è superata tematizzando la ragione del disagio e rimotivando un atto di fede/fiducia nella parola di Yhwh. Se poi è corretta l’interpretazione che vede nella seconda parte del v. 6 è una sorta di commento, allora tale scelte operata dal patriarca è considerata la “giusta” strategia per uscire dall’impasse in cui era caduto.

  1. Si tratta di una proposizione nominale semplice che marca lo sfondo: וְשִׁבְעִים שָׁנָה בְּצֵאתוֹ מֵחָרָן׃ = «Abram avveva 75 anni quando lasciò Carran».
  2. In ebraico ci si sarebbe aspettati un wayyiqtol narrativo e di continuazione.
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