Le donne e la passione secondo Marco – 01

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Con la domenica delle palme si apre davanti a noi la settimana santa e il brano della passione che viene proclamato quest’anno è quello di Marco.

Il racconto marciano è incorniciato da alcuni personaggi femminili: la donna anonima di Mc 14,3-9 e le donne che guardano da lontano quanto è accaduto a Gesù in Mc 15,40-41. Contempleremo l’agire di queste donne in due post.

La donna di Betania e la sua sprecata opera «bella»

Il racconto inizia con il particolare ricordo di una donna senza nome che unge il capo di Gesù, gesto che il maestro qualifica come «azione buona/bella» (kalòn érgon), mentre i presenti lo bollano come “spreco” (Mc 14,3-9).

Gesù si trova a Betania, in casa di Simone il lebbroso (v. 3). È una strana ambientazione: egli ha lasciato definitivamente il tempio, la casa di Dio, per ritrovarsi presso un uomo lebbroso, escluso per questo dal tempio, e tutto avviene a Betania, toponimo dal significato suggestivo: «casa del povero». Il Maestro è a tavola o meglio adagiato a tavola, secondo il modello ellenistico dello stare a mensa e prescritto in ambiente giudaico per la festa di Pasqua (cf. Mishna, mPes 10,1). C’è in questo una sorta di anticipazione dell’ultima cena? Ciò che è certo è che si tratta di elementi che evocano quello che seguirà.

Qui Gesù è raggiunto da una donna senza nome, e per questo possibile portatrice di tutti i nostri nomi, che ha qualcosa di prezioso, un vasetto di alabastro – di per sé già un contenitore pregiato –, «pieno di profumo di puro nardo, di grande valore» (v. 3). Si aggiunge valore a valore. Ad un tratto compie un gesto irreparabile, da cui non potrà mai più tornare indietro: rompe il collo del vasetto – avrebbe potuto semplicemente aprirlo – e versa il prezioso contenuto sul capo di Gesù, ungendolo come un tempo erano unti i re, i profeti e i sacerdoti. Marco non svela nulla sulle ragioni del gesto della donna: nessun pentimento, nessuna supplica, neppure una parola su ciò che prova nei riguardi del Maestro. Il gesto parla da se stesso.

La reazione dei presenti è dapprima di stupore, poi rasenta l’indignazione: «Perché questo spreco di profumo?» (v. 4b). Nel gesto gli astanti – pure essi senza nome e per questo detentori di tutti i nostri nomi – vi leggono una pura perdita, di conseguenza un gesto “folle”. Essi ribaltano il dono più prezioso che fa questa donna in spreco. Sono parole profetiche di quanto accadrà subito dopo a colui che è stato unto.

Anche per Gesù il gesto è di natura profetica perché anticipa la sua morte, ma soprattutto ne dà il senso: l’azione della sconosciuta è qualificata «buona/bella», dove l’aggettivo greco kalós rende il termine ebraico ṭôḇ, che in Gen 1 qualifica per sette volte l’opera creatrice di Dio. Di colpo l’opera di questa donna è, agli occhi del sapiente di Nazareth, un’opera di creazione e per ciò stesso un’opera di vita. Di lì a poco sarà Gesù stesso a fare dono della preziosità della sua vita, rompendo il suo corpo, e la svuoterà sulla croce – spreco in pura perdita (v. 4).

Nel paradosso dello “spreco” che diventa “nuova creazione” c’è tutto il “succo” della croce. La tentazione più grande è di annacquarlo, di limitarlo, di ridurlo a una logica utilitaristica e monetizzabile («Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!», v. 5). È il pensiero degli astanti che non sono, si badi bene, fuori dalla cerchia del maestro, ma la costituiscono. È quindi una tentazioni di tutti noi.

Sì, per quanto sembri sconcertante, per vincere e profumare della vita della nuova creazione, Gesù deve lasciarsi svuotare a tal punto da sembrare un perdente. È la via del maestro, è la via del discepolo.

Ma è possibile un simile percorso? O è al di là delle nostre forze? La domanda cruciale che ogni credente si fa è: Che ne è della mia vita?. Sarà ingoiata senza scampo dal gorgo della violenza, della cattiveria, della brutalità? Scomparirà dalla faccia della terra senza che nessuno se ne accorga, senza lasciare traccia? Di- venterà addirittura un simbolo di fallimento, di insuccesso?

Su tutto questo si erge la sentenza di Gesù che sa di “risurrezione”: «In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (v. 9). La donna non ha nome ma il suo ricordo sarà assolutamente indimenticabile: «in ricordo di lei». Anche l’ultima cena si concluderà con una formula simile nella quale Gesù chiede il ricordo, Paolo e Luca lo esplicitano bene: «fate queso in memoria di me» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19). Facendo memoria di lei, ci si ricorda di Lui e del suo Vangelo, come, facendo memoria di Lui, ci si ricorda del suo dono di sé fino in fondo.

Solo gesti del genere rimangono e non possono più perdersi. Un corpo così donato e perduto risuscita, e un gesto così gratuitamente compiuto fa ormai parte integrante dell’annuncio del vangelo.

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