Gen 2,16-17: il comando divino – prima parte

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Il terrestre abilitato da Yhwh Elohim ad essere in una particolare comunione con lui grazie allo spirito di vita (cf. 2,7), dopo essere stato posto nel giardino, è ora il termine di una parola pronunciata da Yhwh Elohim. Potremmo meglio dire è il tu a cui l’essere divino indirizza una parola che è nella forma del comando:

¹⁶   Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ¹⁷ ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire».

וַיְצַו֙ יְהוָ֣ה אֱלֹהִ֔ים עַל־הָֽאָדָ֖ם לֵאמֹ֑ר מִכֹּ֥ל עֵֽץ־הַגָּ֖ן אָכֹ֥ל תֹּאכֵֽל׃ וּמֵעֵ֗ץ הַדַּ֙עַת֙ ט֣וֹב וָרָ֔ע לֹ֥א תֹאכַ֖ל מִמֶּ֑נּוּ כִּ֗י בְּי֛וֹם אֲכָלְךָ֥ מִמֶּ֖נּוּ מ֥וֹת תָּמֽוּת׃

Al v. 16 si incontra l’ottavo verbo con Yhwh Elohim come soggetto, «ordinò» (ṣāwāh), eccedente rispetto al settenario e per questo importante per rilanciare il racconto e far crescere la tensione drammatica. Da notare subito che il comando divino abilita un altro organo sensitivo del «terrestre», quello dell’udito; precisa poi il «potere» che Yhwh Elohim ha affidato al terrestre perché richiama la possibile alternativa offerta alla libertà umana, una vera e propria posta in gioco capitale di vita e di morte.

Difficoltà di traduzione

La traduzione in italiano delle parole divine è molto delicata a motivo di due espressioni ebraiche che non hanno riscontro nella nostra lingua.

La prima è l’espressione verbale «mangiare mangerai» (ʾākōl tōʾkēl) o «morire morirai»(môt tāmût)1. È facile capire che la resa letterale in italiano del costrutto ebraico non dice assolutamente nulla. Nella grammatica ebraica la funzione dell’infinito assoluto, quando precede un verbo finito della stessa radice, è quella di intensificare il significato del verbo. Se di adotta una sfumatura modale la traduzione diventa: «puoi/potrai mangiare» o addirittura «devi/dovrai morire». Questa è la scelta della traduzione ufficiale della CEI. È chiaro che il semplice fatto di tradurre costituisce già un’interpretazione.

Altra difficoltà di traduzione è quella dell’«albero della conoscenza del bene e del male» (ʿēṣ haddaʿat ṭôḇ wārāʿ). Benché corrente, questa traduzione non è corretta perché pecca di troppa precisione rispetto all’espressione ebraica. Quest’ultima, infatti, è composta da un sostantivo («albero») seguito da un infinito (costrutto) con l’articolo («il conoscere») che regge due complementi oggetto indefiniti coordinati («bene e male») che possono essere letti anche come avverbi. Una buona traduzione che rispetti volutamente l’indeterminatezza della frase ebraica è «l’albero del conoscere bene e male», dove «bene» (ṭôḇ) e «male» (raʿ) possono essere letti come dei sostantivi, e quindi dei complementi oggetto, oppure come degli avverbi. Inoltre, in ebraico il significato di questi due termini è molto ampio: le coppie «bene e male» (sostantivi o avverbi), «buono e cattivo» (nel senso fattuale o etico), «bello e brutto», «piacevole e spiacevole», «felicità e infelicità» possono, in linea di massima, essere adatte per rendere il senso ebraico.

Tante domande

Chiarita la traduzione resta completamento aperto il senso del comando divino. Innanzitutto ci sono una serie di domande che il testo pone al lettore: qual è questo albero della conoscenza, peraltro sconosciuto nella Bibbia e nella letteratura del vicino oriente antico? Perché Yhwh Elohim lo proibisce? Qual è la sua intenzione quando lo sottrae dall’uso del terrestre? Di che morte parla? Rappresenta, questa, una minaccia esplicita oppure precisa le conseguenze di una scelta errata?

Come se fosse la prima volta

La seguente proposta di lettura muove i suoi passi da come il testo semplicemente si pone al lettore come se lo leggesse la prima volta.

Il comando divino, come già notato, abilita l’organo uditivo del terrestre che viene individuato come un “tu” a cui Yhwh Elohim si rivolte. Questo significa che l’essere divino da vita a una relazione diretta nella quale solletica l’attenzione del terrestre. Rivolgendosi direttamente al terrestre parla di lui, del suo cibo e quindi della sua vita, ma anche di una possibile morte. Lo fa poi con delle forme verbali volitive che esprimono qualcosa del suo desiderio a proposito del terrestre. In questo modo, il locutore è, per così dire, nascosto dal suo discorso.

Le parole di Yhwh Elohim, a dispetto di quanto si possa pensare, non suonano come negative. Infatti il comando divino consta di due proposizioni: la prima è positiva (v. 16b), la seconda negativa (v. 17b)2. Nella parte positiva l’essere divino (rac)comanda al terrestre di nutrirsi di tutti gli alberi del giardino (ʾākōl tōʾkēl: v. 16b), cioè di godere di quanto è stato dato. Su questo ordine positivo, che verte sul tutto, si innesta una proibizione riguardante un albero preciso, la quale, a priori, mette al godimento del tutto un limite in perfetta sintonia con quanto il protagonista di Gen 1 aveva fatto. Rifiutare questo limite porta alla morte (môt tāmût)3. C’è un’importante posta in gioco4: vita o morte legate alla scelta di osservare il comandamento, cioè di rimanere legati al Dio della vita, l’unico che può dare libero accesso alla determinazione etica della realtà e quindi all’albero della vita.

L’espressione môt tāmût, «morire morirai», è utilizzato una dozzina di volte nell’Antico Testamento, ma il suo significato non è univoco. Se la si può cogliere come una minaccia di morte, questa sfumatura però non è mai esplicitata, ed è anche possibile intenderla come un avvertimento, una messa in guardia su un determinato comportamento che può portare alla morte.

Un comando da interpretare

A questo punto si pone la necessità di interpretare la parola/comando di Yhwh Elohim e due sono le possibilità:

  1. C’è la possibilità di leggere il comando divino come il tentativo di Yhwh Elohim di conservare l’esclusività della conoscenza5. Egli solo sa quello che è buono/bene o cattivo per il terrestre, vale a dire ciò che porta felicità o infelicità alla creatura umano. Per sbarrare la strada di tale conoscenza al terrestre Dio proibisce di toccare l’albero e rafforza questo veto con una minaccia di condanna a morte nel caso che il terrestre ci provasse. Questo significato sarà fatto proprio dal serpente che lo proporrà alla donna (cf. 3,5).
  2. La seconda possibilità di lettura la si può esprimere nei termini seguenti: lungi dal minacciare di morte il terrestre nel caso in cui disobbedisse – è stato Yhwh Elohim a crearlo e a farlo partecipare alla relazione con lui (cf. il «facciamo» di Gen 1,26) –, Yhwh Elohim cerca invece di avvertirlo, di metterlo in guardia perché rifiutare il limite significherebbe esporsi a un pericolo mortale.

Due posizioni di lettura differenti

Davanti al comando divino si produce uno scarto tra la posizione del lettore/ascoltatore e il personaggio “terrestre” dettata dal fatto che il lettore/ascoltatore ha molte più informazioni del “terrestre” sul personaggio divino6. Infatti il lettore/ascoltatore ha già ascoltato un lungo racconto dove ha appreso quanto Elohim ha fatto in Gen 1 e come lo ha fatto, il personaggio terrestre invece è stato escluso da tutto ciò in quanto appena creato (cf. 2,7). Questo surplus di informazioni in mano al lettore determinano delle differenze che è bene analizzare. Lo faremo nel prossimo post.

Continua


  1. Essa è composta dall’infinito assoluto seguito da un imperfetto o yiqtol.
  2. Cf. A. Wénin, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I Gen 1,1-12,4 (Testi e commenti 14), Bologna 2008, 45.
  3. Sul tema della morte nel giardino di Eden sono illuminanti le pagine di James Barr dal titolo «La naturalezza della morte e il cammino verso l’immortalità»: cf. Barr J., Il giardino dell’Eden e la speranza dell’immortalità (Antico e Nuovo Testamento 2), Morcelliana, Brescia 2008, 32-75.
  4. Dal punto di vista stilistico siamo di fronte a un parallelismo sintattico: infinito assoluto // yitol (ʾākōl tōkēl //môt tāmût) che segna una corrispondenza tra proposizione positiva e quella negativa. È la scelta!
  5. Interessante notare che nelle parole del serpente Yhwh Elohim, nome proprio, diventa un generico Elohim, viene spersonalizzato, facendo cadere la relazione.
  6. Nella vita come nel racconto quando si incontra qualcuno per discutere con lui si danno tre possibilità: o ne sapete di più di lui, o ne sapete altrettanto, o ne sapete meno di lui. Questa osservazione banale gioca in modo significativo nella strategia narrativa. La domanda da porre al racconto è questa: quale posizione il narratore offre al lettore in rapporto ai personaggi? Come in un banale incontro giornaliero, rispetto al personaggio il lettore può saperne di più, di meno o altrettanto. Questo crea un effetto diverso su chi legge o ascolta. Se egli dispone di un’informazione maggiore, si parlerà di una posizione superiore del lettore rispetto al personaggio; se ne sa altrimenti, di una posizione uguale al personaggio; se la sua informazione è carente rispetto a quale del personaggio, si parlerà di una posizione inferiore del lettore. Cf. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative, 163-172; Ska, I nostri padri, 91-106.

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