Gen 2,16-17: il comando divino – seconda parte

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Il post precedente si concludeva con l’affermazione che due sono i piani di lettura del comando: quello legato al lettore e quello su cui si muove il personaggio “terrestre”. Li vediamo nel dettaglio

La percezione del lettore

Quando il lettore si trova davanti al di Yhwh Elohim ha già letto Gen 1 e parte di Gen 2, almeno i primi sedici versetti. Quindi sa che il narratore non ha mai presentato il personaggio divino (in Gen 1 Elohim, in Gen 2 Yhwh Elohim) come un Dio geloso delle proprie prerogativa. Lo stesso personaggio divino lo ha dimostrato nella creazione del mondo e in quella del terrestre, tanto da introdurre quest’ultimo in una relazione con Lui ponendolo come “altro” con il quale dar vita al soggetto «noi», prima di esprimersi come “io” (cf. Gen 1)1 e ora lo ribadisce con la parte positiva del comando che chiama il terrestre alla vita e al godimento: «di ogni albero del giardino mangiare mangerai (ʾākōl tōkēl)» (v. 16b).

Altra informazione acquisita dal lettore è che il personaggio divino è uno che separa e mette dei limiti: alle tenebre primordiali aveva messo un limite perché ci fosse la luce e così si creasse il ritmo del giorno e la notte (Gen 1,3-5); lo stesso aveva fatto con le acqua dell’abisso o del caos perché si dividessero in acque superiori e acque inferiori (Gen 1,6-8)… Infine aveva messo un limite a se stesso e al suo potere quando aveva cessato di creare nel settimo giorno, il giorno di sabato, dalla radice verbale šābat, «cessare» (2,1-3). Un limite al terrestre lo aveva già fissato a proposito del cibo: a esso assegna in cibo i cereali e i frutti degli alberi, mentre agli animali la verdura (cf. Gen 1,29-30).

Di conseguenza il limite che qui Yhwh Elohim pone al terrestre non è contro di lui – Dio dona tutti gli alberi del giardino –, ma è esplicita la funzione di una messa in guardia perché il terrestre non incorra in un pericolo mortale. Infatti il dono di tutti gli alberi risveglia nel terrestre il desiderio (cf. in Gen 2,9a il verbo ḥāmad, «desiderare»), il quale va educato e contenuto perché non si trasformi in bramosia e voracità, vale a dire in desiderio totalizzante in grado di sciupare la capacità relazionale dell’essere.

La bramosia è una “brutta bestia” che fa dell’altro un oggetto da accaparrare per goderne in modo esclusivo, oppure un rivale dal quale bisogna difendersi, o ancora uno strumento da utilizzare al fine di ottenere l’oggetto desiderato. Quello che non fa mai è riconoscere nell’“altro” un soggetto, un’alterità irriducibile, un partner con cui intessere una relazione paritaria. In ciò c’è qualcosa di mortifero perché impedisce rapporti giusti senza i quali la vita dell’essere umano si spegne, muore in un certo modo. Del resto, con essa, la parola non è mai lontana dalla menzogna: diventa il luogo della dissimulazione senza la quale le manovre – consapevoli o meno – rischierebbero il fallimento2.

Secondo il comando divino vivere significa acconsentire a qualcosa di-meno; significa fare il lutto della totalità, acconsentendo a una mancanza, senza la quale il terrestre va incontro alla morte, non tanto a quella fisica, ma a quella in quanto essere, contemporaneamente, di desiderio e di relazione, cioè proprio in quanto umano. Il lettore sa bene che in Gen 1,28-30 Elohim, ponendo un limite all’essere umano, lo invitava implicitamente a un “dominio mite” che rispettasse la vita e il posto degli altri, e che l’acconsentire a questo limite permetteva di creare uno spazio, in cui la vita poteva felicemente svilupparsi, in modo pacifico e armonioso. Questo è esattamente il significato della seconda interpretazione del comando.

Nell’ordine divino è insita una legge che struttura il terrestre in quanto essere di desiderio e gli permette di vivere la relazione, la quale per darsi pienamente ha bisogno di una alterità che passa proprio lì dove c’è il confine del limite. Esso dice che l’“io” non è il “tu” e che nel rispetto dell’alterità essi possono strutturarsi in “noi”, in relazione “io” e “tu”. In questo senso Yhwh Elohim non impedisce al terrestre la conoscenza del bene e del male, al contrario: gli permette una certa conoscenza, istruendolo su una via che conduce alla morte (conoscere male o mal conoscere) e quindi all’infelicità, suggerendogli di conseguenza come fare per andare verso la vita e la felicità (conoscere bene o ben conoscere).

Una sapiente ignoranza: la prospettiva dei personaggio del racconto

I due personaggi messi sulla scena sono: il terrestre e Yhwh Elohim. Iniziamo con il terrestre.

Il terrestre

Questi, messo davanti alla parola/comando di Yhwh Elohim, non possiede tutte le informazioni del lettore, di conseguenza è in grado di percepire l’ordine nei due modi esposti nel precedente articolo e fra loro opposti: una minaccia o una messa in guardia positiva. Inoltre, nel testo non c’è nessun indizio che possa aiutarlo a cogliere il significato corretto; in più, l’intento divino soggiacente (aiutarlo a strutturarsi come essere di desiderio e vivere la relazione accettando il «di meno») rimane del tutto nascosto ai suoi occhi. Questo lo mette in una posizione di radicale ignoranza: il terrestre non sa! Più avanti il serpente pretenderà di colmare questa ignoranza, svelando quello che egli pensa o pretende di sapere di quanto Elohim, e non Yhwh Elohim, conosce (cf. Gen 3,4-5).

Tale radicale ignoranza del terrestre concerne l’ordine in sé e il datore dell’ordine. Per quanto riguarda l’ordine in sé: esso è buono o cattivo? Punta al bene dell’essere umano o, al contrario, alla sua infelicità? Per quanto concerne il datore del dono: è benevolo o malevolo nei confronti del terrestre, vuole per lui il bene o il male?

La radicale ignoranza apre uno spazio di incertezza che può essere colmato solo dalla fiducia o dalla sfiducia nei confronti di Yhwh Elohim e della sua parola. Siamo al nocciolo della questione! Quello che risulterà essere determinante nella scelta che il terrestre non può non fare sarà la fiducia o la sfiducia in Yhwh Elohim. Il modo in cui si comporterà nei confronti dell’albero della conoscenza del bene e del male dimostrerà di fatto in che modo interpreta la parola divina. Se il terrestre rinuncerà a mangiarne, significa che, consapevolmente o no, crede che la parola divina sia buona e che con essa Yhwh Elohim voglia il suo bene e meriti, di conseguenza, la propria fiducia. Inoltre, solo accettando il comando e vivendolo, cioè obbedendo, potrà verificare se ha avuto ragione o torto nel fidarsi, a meno che scelga di diffidare di questo Dio che, in apparenza, frustra il suo desiderio, imponendogli un limite.

Una prova

Per il terrestre si tratta di una autentica prova, vale a dire un procedimento destinato a far emergere una verità nascosta, a insegnare qualcosa che prima si ignorava3. La prova viene innescata dal dono di tutti gli alberi del giardino, la parte positiva del comando. In questo senso la prova non è un’aggiunta al dono, ma è il dono stesso, che come qualsiasi dono, costituisce di fatto una prova. Infatti il modo di riceverlo fa emergere, in colui che lo riceve, di quale spessore è la relazione con il proprio donatore, che, fin lì, è rimasta nascosta o sotto traccia. Detto in altri termini: il dono porta con sé il donatore per colui che lo riceve? Nel dono il terrestre scorge un segno del desiderio del donatore, quell’“io” che vuole inaugurare e far crescere una relazione con lui, il “tu”, così che prenda corpo e carne il “facciamo” di Gen 1,26?

La seconda parte dell’ordine divino palesa questa prova. Se il terrestre acconsente a non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, significa che rispetta colui che gli dona tutti gli altri alberi, significa che riconosce in lui un partner benintenzionato, del quale può fidarsi. In questo senso, il modo di ricevere il dono dirà lo spessore della relazione dell’essere umano con Dio.

Yhwh Elohim

Spostando ora l’attenzione sul personaggio divino, dal momento che il dono porta in grembo questa dimensione di prova, Yhwh Elohim, quando ordina, non conosce il cuore del terrestre più di quanto quest’ultimo conosca l’intento che muove l’ordine ricevuto, cioè Yhwh Elohim ignora se l’essere umano è ben o mal disposto nei suoi confronti, se la scelta che farà sarà quella buona o quella cattiva. C’è ancora uno scarto di “non conoscenza”4 radicale sull’altro che permette il gioco della fiducia, al di fuori della quale nessuna relazione autentica si può sviluppare tra soggetti.

Un albero del tutto particolare

A questo punto l’albero della conoscenza del bene e del male non è l’albero che Yhwh Elohim terrà in serbo per sé, come dirà più avanti il serpente (cf. 3,5). Anzi, nel dispositivo della prova divina, questo albero di mezzo funziona come l’albero attorno al quale il soggetto Yhwh Elohim e il soggetto umano faranno conoscenza l’uno dell’altro, nella buona o nella cattiva sorte. È il prezzo della libertà e in fin dei conti dell’amore.


  1. Cf. il post precedente.
  2. Cf. Wénin, Da Adamo ad Abramo, 47.
  3. Sul concetto di prova biblica rimando allo studio di A. Wénin, Isacco o la prova di Abramo. Approccio narrativo a Genesi 22 (Orizzonti Biblici), Cittadella Editrice, Assisi (PG) 2005, 51-65.
  4. Parlo di “non conoscenza” ispirandomi a P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento. 2 Vol: Compiere le scritture (Biblica), Glossa, Milano 2001, 130-152, e al capitolo dal titolo significativo: «L’uomo, la donna, il serpente».

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