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La famiglia di Nazaret: Lc 2,41-52

Il brano dello smarrimento e il ritrovamento di Gesù al tempio (Lc 2,41- 52), che si ascolta nella prima domenica dopo il Natale dedicata alla sacra famiglia, chiude il vangelo lucano dell’infanzia (Lc 1 – 2). Nello stesso tempo funziona come una sorta di portale che immette nel grande racconto della vita e ministero pubblico del figlio di Maria e, insieme, rimanda al suo mistero pasquale, prefigurato nei tre giorni di ricerca angosciata da parte di Maria e di Giuseppe, e poi nello stupore delle parole pronunciate dal ragazzo, interpellato dai genitori dopo che essi l’hanno ritrovato al tempio.

La narrazione non è certo dettata da motivi di curiosità aneddotica, ma anzitutto da un forte interesse cristologico, che raggiunge il suo vertice nelle parole che Gesù rivolge ai genitori: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere nella casa [traduzione che preferisco a “occuparmi delle cos”]e del Padre mio?» (v. 49).

Inoltre, dal momento che si ascolterà questo brano nella festa liturgica della Santa Famiglia di Nazaret, faremo particolare attenzione all’aspetto delle relazioni familiari che emergono dal racconto di questa vicenda della famiglia di Gesù.

Una crisi familiare

Dopo uno dei cosiddetti ‘ritornelli di crescita’ (Lc 2,40), che riecheggiano quelli analoghi dell’Antico Testamento, allorché si parla della storia di un personaggio famoso, il narratore ci presenta Gesù, ormai ragazzo, che sale a Gerusalemme con i genitori per la festa di Pasqua, e cioè per una delle tre feste di pellegrinaggio, in cui i devoti, secondo la Legge, devono salire al tempio. È questa la motivazione che dà Luca, e cioè quella di una pratica di pellegrinaggio in obbedienza ai dettami della Tôrāh (cfr. Es 23,14-17; 34,23). Il testo lucano non dà informazioni per dedurre se il dodicenne Gesù fosse già un ‘figlio della Legge’ (bar mitzwah) e quindi un adulto con il dovere di essere soggetto ai comandamenti della Legge. In ogni caso, Gesù è comunque vicino alle soglie dell’età della responsabilità, delle scelte autonome.

Qui, a Gerusalemme, le cose si svolgono nella piena normalità, finché il ragazzo Gesù fa i primi tentativi di un adolescente (o quasi) di staccarsi dai genitori e di intraprendere una via sua, un suo cammino indipendente. Il narratore non ci dice nulla sulle motivazioni di questo momento delicato, ma indugia sull’equivoco in forza del quale Maria e Giuseppe non si rendono subito conto dell’assenza di Gesù nella carovana del ritorno (v. 44).

Il narratore, per così dire, adotta non il punto di vista di Gesù, bensì quello dei genitori e, coerentemente con questa prospettiva, bisognerebbe parlare di un loro smarrirsi e di un loro ritrovarsi.

Quello che viene messo in scena è una autentica crisi familiare, che scoppia in tutta la sua gravità e che chiederà di essere ricomposta, consentendo ai membri di uscirne più cresciuti, più maturi. Da una parte vi è l’adolescente Gesù, che si stacca dai suoi genitori, dall’altra costoro che non hanno ancora fatto i conti con tale distacco, pur essendo Maria e Giuseppe!

Il narratore non dice che la cosa è stata semplice; per questo mostra i tre giorni della ricerca angosciata1 da parte dei due genitori di Gesù. In qualche modo essi prefigurano la comunità che vive i tre giorni del mistero pasquale, nell’attesa di una luce, di una parola che le dia speranza.

Nella casa del Padre mio

Dopo i tre giorni del distacco, i genitori trovano Gesù nel tempio, intento a dialogare con i maestri. La tradizione iconografica ama rappresentare Gesù come insegnante di costoro, soprattutto alla luce del v. 47, in cui tutti gli ascoltatori sono stupiti per Gesù e per le risposte che egli dà alle loro domande. A rinforzare questa lettura dell’episodio che vede Gesù ammaestrare i dottori della Legge, sta anche il fatto visivo che Gesù sia seduto «in mezzo a loro», e quindi simbolicamente nella posizione del maestro.

Il quadro però è solo parziale, perché vi è anche l’atteggiamento dell’alunno, che pone domande, che cerca di capire e che, attraverso i loro insegnamenti, vuole penetrare nel mistero di quella Parola che Dio ha consegnato al suo popolo («Li ascoltava e li interrogava», v. 46).

Dal punto di vista dei fatti è semplicemente un ragazzo che pone domande così acute e così pertinenti da non poter non suscitare lo stupore degli adulti, che così si raccolgono attorno a lui. L’immagine di un Gesù Maestro, l’immagine adulta, non deve perciò occultare quest’altro aspetto della verità qui descritta, e cioè il suo essere “discepolo” appassionato, alla ricerca di ciò che il suo cuore desidera sommamente, e cioè conoscere il mistero del Dio d’Israele. Solo chi sa ascoltare, interrogare, porsi alla ricerca amorosa e appassionata, può essere maestro di chi si mette in ricerca!

Giungiamo al cuore del brano, e precisamente al v. 49, che è il nucleo teologico di tutto l’episodio. La sua importanza appare già dal fatto che questa risposta di Gesù ai genitori è la sua prima parola riportata dall’evangelista Luca. Alla domanda di Maria Gesù risponde a sua volta domandando quasi con stupore: «Perché mi cercavate? Non sapevate che…». Gli esegeti discutono sulla traduzione della seconda parte del versetto, che letteralmente sembrerebbe suonare così: «Io devo essere in ciò che è di mio Padre». Chiarire però che cosa ciò significhi è qualcosa di più complesso e sostanzialmente si danno due possibili interpretazioni: «devo occuparsi delle cose del Padre» oppure «devo abitare nella casa del Padre».

Nella prima interpretazione emerge l’idea che per Gesù cercare la volontà di Dio, occuparsi delle cose del Signore è la sua vocazione, la missione a cui non può sottrarsi. Ecco allora l’importanza di quel devo (greco: dêi), che esprime la necessità di Gesù di obbedienza assoluta al piano di Dio su di lui, anche quando questo comporta la passione e la morte (cfr., ad es., Lc 9,22.24; 17,25; 24,7.26.44). Gesù dice in sostanza che, se si è staccato dai suoi genitori, non è per elaborare un suo progetto personalistico, individualistico, ma per ascoltare fino in fondo il progetto di Dio su di lui.

La seconda interpretazione sembra più coerente con l’episodio anche perché Gesù direbbe a Maria e a Giuseppe che un figlio lo si cerca là dove è la casa del padre. Ebbene, tutto quello che gli hanno insegnato a proposito del tempio del Signore, egli l’ha pienamente recepito: quella è casa sua, come è la casa di ogni credente; il lettore, peraltro, intuisce qualcosa di più profondo in tale affermazione, perché egli sa che il figlio di Maria è il Figlio dell’Altissimo, e perciò la Casa di Dio è “casa di suo Padre”.

Nelle due proposte interpretative è importante rilevare che Gesù non parla di Dio in senso generico, come se fosse un Assoluto quasi sconosciuto, ma ne parla come del Padre suo! Chiamando Dio mio Padre, Gesù rivela qualcosa della relazione singolarissima che lo lega a Lui. Nella sua vita pubblica egli introdurrà i suoi discepoli, coloro che avranno accolto l’annuncio del Regno, proprio nel mistero della relazione esistente tra il Figlio e il Padre (cfr. Lc 10,21-22).

La famiglia di Gesù

A questo punto sostiamo un attimo e domandiamoci quale sia il profilo di famiglia che qui emerge. Esso è quello di una famiglia intesa come culla in cui ha potuto prendere forma una disponibilità del figlio ad accogliere la vocazione di Dio su di lui. C’è quindi un preciso insegnamenti per il lettore a proposito del senso della vita di ogni famiglia che sia autenticamente tale. Essa, cioè, è invitata a permettere a ciascuno dei suoi membri di scoprire e di accogliere la propria chiamata e di trovare così il proprio posto nel progetto di Dio. Questo, come insegna appunto l’episodio evangelico di Lc 2,41-52, non è un compito facile, e può comportare anche dolorosi distacchi, persino momenti di incomprensione, che non sono stati risparmiati neppure ai genitori di Gesù.

Con una frase che potrebbe suonare quasi come uno slogan, il lettore comprende, contemplando la famiglia di Nazaret coinvolta in questa vicenda, che l’essenza della famiglia è essere vocazione alla vocazione!

Incomprensione e fiduciosa attesa

L’evangelista ci segnala l’incomprensione di Maria e di Giuseppe alla risposta del figlio Gesù: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro» (v. 50). In ciò si avverte la volontà dell’evangelista di offrire un ulteriore parallelismo con il cammino dei discepoli, di fronte al mistero della passione del Signore. Infatti la medesima reazione di incomprensione viene attribuita ai discepoli quando Gesù annuncia per la seconda e la terza volta quanto lo attende, e cioè la sua passione, morte e risurrezione (cfr. Lc 9,45; 18,34). Luca però non conclude l’episodio annotando questa difficoltà a capire, da parte di Maria e di Giuseppe, ma subito dopo rileva anche che: «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). In questo atteggiamento di riflessione amorosa, che non si arresta di fronte alla difficoltà che l’umano ha di penetrare nel mistero del piano di Dio, Maria rappresenta il modello del vero discepolo, e la figura della fede, che attraversa le vicende della vita, attendendo pazientemente e fiduciosamente di essere illuminata dal Signore.

La statura interiore di Maria, che il lettore ha apprezzato in tutto il vangelo dell’infanzia, riapparirà poi nella vita pubblica come la figura dell’ascolto e dell’obbedienza alla Parola, ma anche come la figura ripiena del dono pasquale, dello Spirito (cfr. At 1 – 2).

Gesù cresceva in sapienza…

L’episodio dello smarrimento e ritrovamento al tempio si chiude con le note redazionali circa il ritorno di Gesù a Nazaret. Il lettore si scontra con un paradosso teologico: colui che aveva rivendicato la libertà di cercare con tutto se stesso il Padre, porta questa sua decisione nel quotidiano, vivendo nella sottomissione ai suoi. In definitiva, l’obbedienza vissuta a Nazaret è il vero banco di scuola per imparare quell’obbedienza che non è perdita della libertà, ma espressione di suprema libertà, quella che si sa fare dono totale di sé. Lo sottolineerà molto bene il Gesù del vangelo di Giovanni: «Nessuno me la [= la vita] toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,18).

Dalla famiglia di Nazaret il lettore apprende una preziosa verità: obbedienza e libertà, lungi dall’essere poli opposti, si implicano a vicenda, perché la libertà è per il servizio; e la famiglia è la culla e la prima scuola in cui apprendere questa verità!


  1. Il verbo odynáomai, che Maria poi userà, è il medesimo posto sulla bocca del ricco epulone nell’inferno: cfr. Lc 16,24

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