Un tragico risveglio: Gen 3,7

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La prima conseguenza della trasgressione è la realizzazione della seconda promessa fatta dal serpente: «si apriranno i vostri occhi» (Gen 3,5). In effetti gli occhi della prima coppia si sono aperti ma non sul mondo divino bensì sulla loro nudità, cioè sul limite. C’è ironia nelle parole del narratore perché il terrestre e la donna dopo aver mangiato dell’albero della conoscenza (yādaʿ) del bene e del male (cfr. Gen 2,17; 3,6) per ottenere, spinti dall’astuto (ʿārûm) serpente (cfr. Gen 3,1), sapienza e conoscenza (radice verbale yādaʿ) del bene e del male (cfr. Gen 3,5), approdano alla conoscenza (yādaʿ), ma solamente quella di essere «nudi» (ʿērummîm). Avevano creduto di acquistare la conoscenza di Dio, hanno acquistato solo la consapevolezza di essere nudi; credevano di diventare come Elohim, si accorgono di essere solamente uomini e uomini nudi. Nel linguaggio biblico la nudità è segno di estrema povertà e fragilità. Non un caso che il termine ebraico comune per nudità ʿerwâ non solo indica gli organi sessuali ma anche i punti deboli nella difesa di un luogo (Gen 42,9; Is 20,4).

Per rimediare alla propria nudità non sanno fare di meglio che una cintura di foglie di fico (v. 7b). Il vocabolo ebraico reso con «cintura» è ḥăgôrâ che indica più un perizoma che una vera cintura (cfr. 1Re 2,5; 2Re 3,21; Is 3,24)1; essa è fatta intrecciando «foglie di fico» che sono tra le foglie più grandi della vegetazione palestinese2. Al di là del tentativo ridicolo dei due personaggi di riparare al guaio fatto, qual è la ragione di tale gesto? lo fanno per vergogna (cfr. Gen 2,25), per pudore? Oppure forse lo fanno per paura?

In effetti il termine «nudità» rimanda ai punti deboli e vulnerabili, se dunque questi vengono esposti, l’altro potrà approfittarne a proprio vantaggio e a spese di colui che è nudo. Una vulnerabilità così fatta impone che sia nascosta e protetta. Fare questo, però, significa rinunciare alla prossimità e accettare invece una distanza, addirittura una rottura della fiducia. Sarà Yhwh Elohim che più avanti convaliderà questo dato di fatto e gli darà un carattere definitivo vestendo la prima coppia con delle turche di pelle.

Il narratore quindi registra subito una frattura fra il terrestre e la sua donna e la esprime simbolicamente con l’immagine ambigua della nudità. A questa ne seguiranno almeno altre due fra loro.

Quando Yhwh Elohim chiede al terrestre se ha mangiato del frutto, quest’ultimo scarica la responsabilità sulla donna che gli ha passato il frutto (cfr. 3,12). Nonostante, obiettivamente, non abbia completamente torto, rimane il fatto che il terrestre rompe la solidarietà con colei che aveva identificato come un “altro” se stesso, una sorta di sua fotocopia (cfr. 2,23).

Yhwh Elohim, parlando alla donna, evoca la sua maternità, ma anche le relazioni che intratterrà con l’uomo che eserciterà su di lei il proprio potere (cfr. 3,16). Questi quindi in 3,20 dà il nome Eva (ḥawwâ, vivente) alla donna. C’è certamente un aspetto positivo, dato dal fatto che l’uomo riconosce nella donna colei che dà la vita sulla scia di quanto aveva affermato Yhwh Elohim, ma forse non è tutto oro quello che luccica. Infatti l’uomo impone il nome alla donna in modo unilaterale, senza ricevere lui stesso un nome e senza l’avvallo divino. Così facendo egli inizia a esercitare quel potere sulla donna che Yhwh Elohim aveva appena denunciato. Inoltre, scegliendo un nome direttamente legato alla maternità, l’uomo non descrive la donna per quello che è, un essere di pari dignità e rango, un essere che gli corrisponde nella sua diversità, bensì per la funzione che ricoprirà, cioè quella materna di cui lui sarà il primo beneficiario. Infatti tramite questa funzione supererà quella condanna alla morte. Tutto ciò però sancisce ancora una volta una rottura dell’uguaglianza e della reciprocità. Queste distorsioni e rotture si allargheranno anche alla relazione con Dio.


  1. Cf. WENHAM, Genesis 1-15, 76.
  2. HAMILTON, Genesis 1–17 [Kindle edition], posizione 3494.

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