HomeCommento a GenesiLa sentenza sull’uomo e l'arida disarmonia del creato: Gen 3,17-19

La sentenza sull’uomo e l’arida disarmonia del creato: Gen 3,17-19

¹⁷ All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. ¹⁸ Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. ¹⁹ Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!»

Il giudizio sull’uomo è il più lungo e il più articolato. Inizia con una proposizione causale («Poiché hai ascoltato…») che precede quella principale: in essa i locutore divino sottolinea il fatto che l’uomo ha preferito ascoltare la parola della donna, piuttosto che ottemperare al comando divino, da qui le conseguenze. Inoltre l’espressione «ascoltare la voce di…» è una forma idiomatica che sta per obbedire (cfr. Gen 16,1; Es 18,24; 2Re 10,16)1. Il verbo «mangiare» (ʾāḵal) ricorre cinque volte nei tre versetti. La trasgressione dell’uomo è consistita nel mangiare il frutto proibito, di conseguenza la disarmonia si paleserà proprio in ciò che l’uomo produce e mangia: «Con dolore (bᵉʿiṣṣāḇôn) ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». La terminologia è simile a quella del v. 16: come la donna soffre per il suo ruolo fondamentale di madre, così l’uomo sarà afflitto nel suo ruolo primario di coltivatore e produttore di cibo. La disarmonia non si esprime tanto nel lavoro – il verbo ʿāḇaḏ, «lavorare», non è utilizzato – quanto nella fatica e nel sudore.

La relazione fondamentale che è intaccata dalla bramosia è quella tra l’uomo (ʾādām) e la terra/suolo (ʾădāmâ) da cui era stato tratto (cfr. Gen 2,7).

La bramosia e il disastro ecologico

Come questa relazione fondamentale è a rischio di degenerazione? Forse oggi tale aspetto è più vivo che mai. Infatti nel rapporto con la natura, la bramosia porta l’uomo a comportarsi da padrone assoluto, un atteggiamento del tutto in dissonanza con il servizio al giardino di cui il narratore parla in 2,15, o con il potere docile suggerito da Elohim in 1,28-29. Tale mentalità si concretizzerà, per esempio, in uno sfruttamento sfrenato e dissennato delle risorse naturali, il cui effetto devastante è sotto gli occhi di tutti noi. Sotto la spinta predatoria e devastatrice del potere bramoso degli uomini la terra/natura diventa «maledetta», cioè resa potatrice di morte. Oggi più che mai la desertificazione incalzante, dovuta al cambiamento climatico indotto dagli uomini, è un segno emblematico di morte, come prospetta la sentenza di Gen 32.

L’accumulo di risorse in mani di pochi e il rifiuto di condividerle procede anch’esso dall’avidità degli esseri umani. Tutto questo genera conflitti che finiscono con il colpire la terra in quanto ha di buono per tutti gli uomini. Questa logica perversa è la semente del serpente.

Letta così la sentenza di Dio non è una condanna dell’uomo, ma un avvertimento sui frutti mortiferi se l’uomo, e in definitiva il lettore, continuerà a nutrirsi (mangiare) della logica bramosa del serpente.

Il ritorno alla polvere

Quando questa relazione fratturata tra uomo e terra/natura si ricomporrà? Il testo osa pronunciarsi: «Finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (v. 19).

Se l’uomo, sotto la spinta del desiderio illimitato (serpente), bramava di essere come Elohim, qui è ribadita la sua vera dimensione, il suo limite invalicabile, perché è tratto dalla polvere.

Il verbo «ritornare», in ebraico šwḇ, in molti passi dell’AT esprime conversione, riconciliazione. In questa prospettiva la morte, invalicabile confine, non è il prodotto del peccato (il termine «morte» non c’è in 3,17-19 dove il contesto sarebbe stato propizio)3, anzi il narratore sembra supporre che la morte sia una dimensione che «da sempre» appartenga all’essere umano (cf. 3,22 in relazione a 2,9)4. La morte infatti è la forma estrema e radicale della creaturalità e del limite dell’uomo. È una esperienza che, una volta rotta la relazione con Dio, può essere vissuta in modo tragico perché vista come annientamento di ogni desiderio di felicità che superi i limiti del tempo (diventare «come Dio», appropriarsi dell’«albero della vita»)5.


  1. Vedi anche BDB, 1034a.
  2. Una eco di questa interpretazione moderna la si ritrova anche nel libro del Levitico al capitolo 26, dove le maledizioni che si esplicitano nella privazione dei frutti della terra (cfr. Lv 26,19-20), sono esplicitamente legate al rifiuto di accordare alla terra il riposo al quale ha diritto (Lv 26,34-35), cioè al rifiuto di limitare lo sfruttamento della natura.
  3. Cfr. HAMILTON, Genesis 1–17, posizione 3710; WENHAM, Genesis 1-15, 83.
  4. Cfr. SKINNER, Genesi, 84; WESTERMANN, Genesis 1-11, 266.
  5. Cfr. CAPPELLETTO, Genesi (1-11), 130.

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