HomeAnno CIo vi darò parola e sapienza: Lc 21,5-19

Io vi darò parola e sapienza: Lc 21,5-19

In quel tempo, ⁵mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: ⁶«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». ⁷Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». ⁸Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! ⁹Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». ¹⁰Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; ¹¹vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. ¹²Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. ¹³Avrete allora occasione di dare testimonianza. ¹⁴Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; ¹⁵io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. ¹⁶Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; ¹⁷sarete odiati da tutti a causa del mio nome. ¹⁸Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. ¹⁹Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Il contesto

È più che mai importante davanti al brano evangelico proposto dalla 33° domenica del tempo ordinario fare riferimento al contesto evangelico da cui è ricavato. Infatti esso è preceduto dall’icona della vedova povera che getta i suoi spiccioli nel tesoro del tempio (Lc 21, 1-4). Dato che non esiste cesura alcuna, i due brani chiedono di essere letti insieme, come un’unica pericope. Mentre Gesù prosegue il proprio insegnamento nel tempio, alzando gli occhi, vede uomini ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro, e una vedova, che getta due spiccioli. Utilizzando un’espressione solenne – «in verità vi dico» – rivela a coloro che lo ascoltano il valore autentico dell’offerta della donna: «questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva per vivere» (v. 4). La traduzione letterale del v. 4 – «tutto quanto aveva gettò la sua vita» – richiama alla memoria del lettore altri insegnamenti di Gesù: «Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (9,23-24). Nella radicalità del dono della donna, il lettore “vede” una concretizzazione dell’insegnamento del Cristo: seguire significa dare la vita, significa aderire con «tutto» ciò che si è e si possiede non ad una teoria religiosa, ma ad una persona: Gesù. Il discorso escatologico approfondisce questo cambio di prospettiva. Anche se il tempio, il luogo storico del rivelarsi di Dio, verrà distrutto, l’annuncio della sua presenza salvifica nella storia verrà proclamato a tutte le genti, attraverso il dono di sé dei discepoli (21,13): nella persecuzione, nel rifiuto, nello spogliamento affettivo ed effettivo potranno continuare a credere che il tempo dei frutti è vicino soltanto conservando le parole del Maestro nel cuore, in un atteggiamento vigilante e credente (21,11-13.33-37).

Con questa chiave di lettura possiamo ora approfondire il nostro testo. Nel discorso escatologico di Gesù ritroviamo elementi storici, che si intrecciano con altri simbolici: tra gli elementi storici risalta naturalmente la distruzione del tempio di Gerusalemme nell’anno 70 d.C. che nel momento della stesura del terzo vangelo è ormai una tragica realtà.

L’occasione

Come in Matteo, il discorso di Gesù viene sollecitato dall’ammirazione dei suoi interlocutori. L’oggetto della loro ammirazione aveva una lunga storia: il primo tempio, costruito dal re Salomone e pieno di splendore, fu distrutto dai Babilonesi nel 587 a.C. Dopo l’esilio babilonese venne ricostruito da Zorobabele, tra l’opposizione di alcuni e l’impegno di altri che credevano nella rinascita d’Israele dopo l’esilio. Nel I sec. a.C. il tempio venne arricchito, trasformato, ampliato dal re Erode. Ma più del valore estetico, il tempio aveva un significato teologico: rappresentava il punto d’incontro tra cielo e terra, luogo del divino e sorgente dell’umano.

Tuttavia è importante ricordare che nell’Antico Testamento c’è un atteggiamento ambivalente verso il tempio: da un lato, è riconosciuto come luogo della presenza di YHWH, il Dio vivente. La nube abita in esso e lo possiede (Es 40,34-35; 1 Re 8,10-11). Nella predicazione di Isaia, la fine del tempo sarà contrassegnata dalla trasformazione del tempio in un luogo d’incontro, dove tutti i popoli saranno convocati dall’unico Dio ad un banchetto di gioia in un abbraccio di consolazione (Is 25,6-8 ), dato che esso è destinato ad essere «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7).

Insieme a questa corrente “pro-tempio”, incontriamo coloro che condannano la falsa sicurezza legata al tempio e ne predicono la distruzione (Ger 7; 26). Dio non può essere trasformato in un idolo manipolabile, addomesticato da preghiere e sacrifici: non può essere richiuso in un’istituzione, neppure nella più sacra. Per questo, durante l’esilio, Dio sceglie di abbandonare il tempio e di abitare con il suo popolo in terra straniera (Ez 11,22-25).

Ora, dinnanzi alle rovine del luogo santo, la comunità di Gesù si interroga, chiede un segno capace di indicare l’avvento della fine. Gesù offre un segno, ma non il segno appariscente chiesto dai discepoli: egli indica il segno povero ed umile del Figlio dell’uomo, della sua incarnazione totale, della sua morte e risurrezione. Per questo al lettore viene però chiesto di correggere la domanda: non si tratta di conoscere i tempi, ma di dare testimonianza (21,13), di perseverare (21,19), di tenersi pronti (21,34-36). Si tratta di assumere la mentalità del Figlio, il suo abbandono fiducioso nel Padre (21,18) capace di trasformare persino la persecuzione ed il martirio nel “tempo opportuno” dell’annuncio.

Il tempo della testimonianza

Il discorso escatologico non riguarda il tempo di domani ma il nostro “oggi”, il tempo della Chiesa, dove tante certezze sembrano sgretolarsi e dove tutto ciò che per molto tempo ha sostenuto la fede – tradizione, consenso, popolarità, rilevanza sociale – sembra in via di esaurimento. Una cortina di pessimismo copre la nostra realtà ecclesiale e sociale: tutto parla di fine, decadenza, fallimento e morte.

Ebbene, Gesù oggi ripete che proprio questo nostro tempo è il kairós, il tempo opportuno della testimonianza. La richiesta di un segno trova, dunque, una risposta inaspettata: come la croce è il segno che annuncia l’alba della risurrezione, così la persecuzione, il rifiuto, la piccolezza… sono i segni che confermano il discepolo nella sua sequela quotidiana del Crocifisso/Risorto.

Come continuare a seguire Gesù, dunque, nel tempo dell’attesa? Luca indica alcune coordinate:

«Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere» (vv. 14-15). Gesù invita i suoi a proseguire, a camminare lungo il sentiero tracciato dalla Parola, senza perdete tempo a costruire dentro di sé le proprie risposte. Il discepolo non deve preoccuparsi di cosa e di come dire, ma di fare spazio alla Parola, di conservarla, tesoreggiarla, lasciandosi trasformare in un prolungamento della Parola fatta carne. Questa focalizzazione sull’essenziale offrirà lo strumento efficace, la parola giusta per trasmettere il messaggio del Vangelo in situazioni sempre diverse. L’invito è dunque a fidarsi ed affidarsi al Signore nel quale crediamo. In lui anche il buio si trasformerà in luce e il rifiuto in una nuova possibilità. Pensiamo, per esempio, ciò che accadde alla comunità delle origini: proprio grazie alla persecuzione, apostoli e discepoli lasciano Gerusalemme e la corsa della Parola può finalmente avere inizio.

Luca invita la sua comunità, e noi con loro, a discernere e a custodire ciò che appartiene all’essenziale perché da questo “centro incandescente” scaturiranno gli strumenti, le parole e le azioni adatte per essere efficaci anche nel servizio apostolico. Ma questa disposizione può nascere soltanto in una comunità che non possiede la Parola, ma considera se stessa un servo inutile (cfr. Lc 17,10).

Credo che questa parola di Luca imponga una lettura critica di molte impostazioni pastorali e progetti di vita. Forse dobbiamo smettere di lamentarci delle difficoltà del nostro presente, dell’aridità del nostro servizio apostolico e vivere tutto questo come kairós di Dio, come invito a ritornare alla centralità della Parola. Forse è giunto il momento di ridimensionare noi stessi ritrovando il nostro posto nell’umile servizio della Parola, non soffocandola con le nostre parole, ma permettendo ad essa di essere efficace nel mondo attraverso il nostro cuore sempre più semplificato, sempre più definito come riflesso del cuore di Dio.

Possiamo, infatti, utilizzare strumenti sempre più raffinati e tecnologici; possiamo anche raggiungere i confini del mondo, ma se il nostro cuore non è “bruciato” dalla Parola, siamo soltanto «un bronzo che rimbomba o cimbalo che strepita» (1 Cor 13,1).

La consegna di Gesù è molto precisa: «Non preoccupatevi di che cosa dire perché io metterò sulle vostre labbra la mia Parola». È l’anticipo della promessa di essere con noi fino alla fine dei tempi che si concretizzerà nel dono dello Spirito: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra» (At 1,8).

Tutto ciò ha però un prezzo: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (v. 17). Ritengo sia uno dei testi più drammatici del vangelo, scandito da una tensione crescente. Si passa dalla persecuzione sociale e politica ad una persecuzione all’interno della propria famiglia, che tocca i livelli più intimi della persona (v. 16). Dire che saremo odiati da tutti sembra un po’ esagerato… proprio gli Atti riferiscono infatti che la prima comunità era guardata con simpatia e rispetto da molti (2,47). Ma il testo sottolinea che non dobbiamo preoccuparci di ciò che pensano gli uomini, non possiamo vivere schiavi della loro approvazione perché l’annuncio esige un cuore libero, non soggetto a ricatti di alcun genere.

Puntare su Gesù

Tutto ciò sollecita il lettore a focalizzare la propria attenzione sulla persona di Gesù, sulla sua venuta. Non la distruzione del tempio, non i segni cosmici, neppure la persecuzione è ciò che deve catturare l’attenzione del discepolo: l’essenziale è continuare a fissare lo sguardo sulla persona del Maestro (21,27). La sua venuta è segno di vita, non di morte: occorre interpretarlo con la gioia con cui si coglie l’annuncio della primavera nella foglia appena germogliata dell’albero di fico (21,30-31).

Perché ciò accada, il discepolo deve assumere una duplice attitudine:

  1. la capacità di discernere tra i molti segni, le molte parole, i molti profeti… il segno della Presenza. L’inganno, descritto da Luca, non è esterno ma interno alla comunità. Alle origini, come oggi, molti tra noi, forse per la fatica dell’attesa, proclamano una parusia imminente, offrono date e scadenze. Allora come oggi è facile aggrapparsi a queste facili illusioni perché è duro camminare nel buio, aggrappandoci ad una fede spoglia di miracoli e segni portentosi.
  2. la perseveranza. La fede cresce nella perseveranza: quando l’entusiasmo del primo istante incontra la fatica della quotidianità, dell’insuccesso, dell’apparente o reale fallimento… la tentazione di abbandonare “l’aratro” e di volgersi indietro (Lc 9,62) è molto forte. È in questo momento che l’emozione lascia il campo alla fede, una fede vigilante che conduce alla conversione, al passaggio da noi a lui, dal nostro sguardo, mentalità, sentimenti, allo sguardo, mentalità, sentimenti del Figlio (Fil 2,5).

Perseverare è dunque un percorso di crescita che richiede di:

  1. penetrare nelle zone non evangelizzate di noi stessi, nel profondo dove si agitano passioni ed ansie, e collaborare con il Padre al processo della creazione continuamente in atto… anche in noi. È portare orientamento e pace, senso ed armonia; è scendere nelle zone di durezza, d’indifferenza e lasciare lievitare il richiamo della dolcezza;
  2. vivere con intensità straordinaria il presente perché è l’unico tempo che ci appartiene, il tempo della responsabilità, quello in cui siamo chiamati a collaborare con Dio alla salvezza del mondo;
  3. credere che il Signore verrà, ed allenare gli occhi del cuore a cogliere i segni della sua venuta nella storia, nella nostra storia personale e nella grande storia dell’umanità, cogliendo ed affermando i germi di vita, i semi di risurrezione, anche se nascosti nell’inverno della morte;
  4. divenire profeta del Regno non mimetizzandoci tra la folla o nell’alibi della nostra povertà, ma ponendo segni creatori di relazioni nuove, capaci di opporre alla logica profanante della violenza l’utopia della mitezza.

Noi, suoi discepoli, possiamo agire nella pace, perché sappiamo che la salvezza totale è dono del Padre, è pura gratuità. La piena rivelazione della bontà di Dio, della sua misericordia, è davanti a noi perché Colui che era, che è, è colui che viene (cfr. Ap 1,18).

1 commento

  1. Grazie per queste parole consolanti. È vero noi cerchiamo risposte al futuro che verrà e di cui non ci è dato di sapere ma, dimentichiamo il nostro oggi. Anche oggi se vogliamo vi sono segni di distruzione, di morte. Incendi devastanti, inondazioni, rivolte e guerre infinite. È la fine questo? Ci chiediamo, ma io penso che la domanda pressante non sia se questi sono gli ultimi tempi ma che tempo è il tempo dell’uomo. Questi tempi sono così difficili perché abbiamo smarrito il senso di Dio, della preziosità dell’uomo. Non dobbiamo essere possessori della parola che, denota una sapienza puramente umana ma, dobbiamo lasciare che la Parola ci possieda. Questo è possibile oggi come ieri. Ci è stato dato un segno, è fisso ed inamovibile: la Croce. Essa indica un punto fondamentale per noi, indica una fine ma non dell’uomo, del male. Indica quanto prezioso sia ogni essere umano. Gesù afferma che è venuto per accendere un fuoco , come vorrei che fosse acceso, come vorrei che incendiasse il mondo. Come vorrei che non ci chiamassimo più impunemente cristiani ma, cristificati , resi torce vive dell’Amore di Dio. Allora non ci chiederemo più: quando sarà la fine? Pregheremo : Vieni Signore, vieni presto!

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