Mosè salvato dalle acque (quarta parte)

Un racconto carico di ironia

Un ultima parola vorrei spenderla a proposito dell’elemento ironico del racconto di cui spesso ho parlato. Esso ha lo scopo di rilevare l’ironia di Dio: Dio utilizza i deboli, ciò che è umile e disprezzato nel mondo per far arrossire i potenti (cf. il canto del Magnificat di Maria). Anziché utilizzare il potere in termini mondati, che sono quelli del dominio, Dio agisce mediante persone prive di potere reale; anzi, esse sono difficilmente adatte al suo esercizio.

La scelta ad esempio di cinque donne nei capitoli primo e secondo comporta per Dio un alto rischio e la vulnerabilità: questo rischio è reale, in quanto queste donne possono fallire e Dio dovrebbe ricominciare tutto daccapo. Ma esse danno prova di saper fronteggiare con sagacia le spietate forme di un poteste sistematico, e Dio non è il soggetto di alcun verbo nelle loro varie imprese. Ancor più, il disegno di Dio per il futuro del popolo di Israele resta nelle mani di uno dei suoi figli indifesi, un bambino abbandonato alle acque del fiume in un canestro di vimini. Mutuando una espressione di Is 53,1 è da esclamare: chi mai avrebbe creduto che il braccio del Signore si sarebbe rivelato in questo modo! Dio agisce in tutta questa sezione in forma non intrusiva, al tempo stesso strana e marcata dalla possibilità di fallimento.

Si può dire che l’ironia alimenti un senso di speranza all’interno di qualunque situazione in cui Dio sembra essere assente. Quella che appare una situazione disperata in realtà viene caricata di possibilità positive. Ma ciò esige fede, «dimostrazione di cose che non si vedono» (Eb 11,1), per percepire che Dio è all’opera.

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