Una carne sola senza vergogna per la propria nudità. Gen 2,24-25

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24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. 25Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

I versetti 24-25 marcano il passaggio dalla linea principale del racconto — portata avanti dai wayyiqtol narrativi — allo sfondo 1. Così si passa dal racconto al commento del narratore su quanto YHWH-Dio ha fatto e sulla situazione nuova che coinvolge l’uomo e la donna.

Il narratore si sofferma sulla profondità della relazione che si instaura tra l’uomo-maschio e la donna. C’è un impulso talmente forte da far staccare l’uomo dalla casa paterna per dar vita, assieme alla propria donna, a una reale e profonda relazione interpersonale fatta di quella reciprocità amicale che va oltre il semplice rapporto sessuale pur prevedendolo come nel matrimonio. In questa prospettiva può essere meglio compresa l’espressione «i due saranno una sola carne». Non c’è la mera unione fisico-sessuale tra i partner, ma si tratta di una completa messa in comune, nella reciprocità, di affetti, sentimenti, volontà, corporeità fino a diventare una sola persona, una sola realtà (anche se «carne» bāśār = limitata e fragile) senza perdere le differenze, perché ognuno resta rispettivamente ʾîš e ʾiššâ. Siamo davanti all’«unità nella diversità», un’unità che si realizza nel tempo («diventeranno una sola carne»).

Che si tratti di una «novità assoluta» rispetto a quanto esiste, è dato dal fatto che non è la donna a lasciare la casa paterna, come avveniva di solito, ma l’uomo. Infatti il verbo «lasciare/abbandonare» ʿzv indica il distacco del figlio maschio dalla propria famiglia di origine per dar vita ad un propria casa o casata 2. Il legame profondo genitore–figlio è spezzato e la nuova relazione tra uomo e donna è talmente profonda che può andare oltre a quanto già realizzato dai genitori. Dall’appartenenza di natura o di sangue con il padre e la madre si passa a quella di ‘alleanza’ tra marito e moglie, nella reciproca libertà.

La perfetta sintonia è espressa anche dal non vergognarsi della rispettiva nudità del versetto 25 3. Nella tradizione sia ebraica che cristiana la nudità è legata prevalentemente alla dimensione sessuale o alla corporeità fisica. Ciò ha indotto a intendere la mancanza di vergogna come dimostrazione del dono preternaturale dell’integrità o esenzione dalla ‘concupiscenza della carne’, vale a dire dal desiderio sessuale vissuto in forma disordinata (libidine cattiva e depravante). Nella Bibbia (e in parte nella nostra cultura), la sessualità non è, però, la dominante o la costituente della nudità. Essere senza vestiti o scoprirsi nudi vuol dire fare i conti con la propria vulnerabilità, con la debolezza, con situazioni esistenziali di creature limitate e deboli (cf. Gb 1,21). Significa sperimentare la povertà, la miseria, l’umiliazione e l’essere senza protezione (cf. Dt 28,48). Essere vestiti era simbolo di dignità umana e sociale, di potere ‘regale’ da esercitare, di riconoscimento di un posto da ricoprire 4. In questa prospettiva, l’uomo e la donna «non si vergognano l’uno dell’altro» (così letteralmente), ossia: si accettano nella loro creaturalità limitata e fragile (nudità come limitatezza umana), si presentano l’uno all’altro senza maschere sociali e di ruoli (nudità come assenza di una veste). Tale esperienza passa attraverso il non provare vergogna della propria corporeità e sessualità, perché l’alterità umana più radicale e più vera la si vive nell’accettazione o meno della differenza sessuale.

Tutto ciò è favorito da due atteggiamenti. Vivere l’incontro come dono reciproco in cui ognuno accetta che l’altro sia ‘altro da sé’, ‘diverso da sé’. Scegliere di restare all’interno della relazione di quel Dio che ci ha voluti ‘così’ per il nostro bene, per la nostra più piena felicità. Ma proprio qui si insinuerà la tentazione, vera prova della solidità delle relazioni: non accogliere se stessi e l’altro/a nella propria e altrui nudità e non accettare di vivere all’interno del progetto di Dio perché ritenuto limitante i propri desideri di scegliere da soli la via della felicità. E basterà un ‘nulla’ perché la tentazione diventi peccato, cioè possibilità di sbagliare bersaglio della propria vita rompendo la relazione con Dio e inoltrandosi su strade scelte a piacere 5. Toccherà al serpente nel quadro successivo a introdurre questo ‘niente’.

  1. Gen 2,24 si apre con il costrutto verbale x+yiqtol che non appartiene al discorso diretto, ma alla narrazione. Quindi è un costrutto verbale di sfondo che interrompe la linea principale della narrazione. Esso poi, essendo costruito con la forma verbale dello yiqtol, esprime azione ripetuta o abituale. Seguono due weqatal (25b.c) che sono forme verbali di continuazione a livello di sfondo. Il v. 25 ha un wayyihyû, è verbo pieno e non è da intendersi come un wayyiqtol, quanto come un weyiqtol che continua la linea di sfondo. L’intento quindi dell’autore è di far sì che il narratore commenti qualcosa che è consuetudinario nell’ambito delle relazioni uomo-donna (cf. GKC, 107g). L’espressione «l’uomo e la sua donna» è apposizione di «i due» šenêhem. Le due proposizioni del versetto formano una proposizione duplice, dove la protasi ha una funzione concessiva: «Nonostante fossero nudi…, non provano vergogna».
  2. Cf. Wenham, Genesis 1-15, 70.
  3. In Gen 3 l’armonia frantumata sarà riconosciuta dalla vergogna di essere nudi.
  4. Si può vedere il significato della «tunica dalle lunghe maniche» nella vicenda dell’ebreo Giuseppe in Gn 37,2-36, del «vestito più bello» nella parabola di Lc 15,11-32 e della «tunica tutto di un pezzo» di Gesù in Gv 19,23-24.
  5. Cf. Cappelletto, Genesi (1-11), 106.

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