Qualsiasi cosa vi dica, fatela! Gv 2,1-11

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Il brano evangelico di questa domenica tratto dal vangelo di Giovanni termina con una sentenza solenne che presenta Cana di Galilea come luogo di manifestazione dell’identità di Gesù:

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (v. 11).

Leggendo l’intera pericope scopriamo però che Cana è anche il luogo in cui i suoi divengono consapevoli di un’ora non ancora giunta. A Cana, dunque, il discepolo è invitato a credere per iniziare la sequela del Maestro lungo un cammino di rivelazione progressiva che culminerà nell’ora, nell’intronizzazione del Cristo sulla croce. Ma di quale segno parla Giovanni?

Notiamo subito che il racconto è focalizzato su Gesù: tutto ruota intorno a lui. Egli entra in dialogo con la madre (vv. 3-5), coi servitori (vv. 7-8), col maestro di tavola (vv. 9-10). I diversi personaggi sono definiti in relazione a Lui: la madre di Gesù (vv. 1. 3. 5), i suoi discepoli (vv. 2. 11), mentre le parole della madre volgono lo sguardo dei servi verso di Lui: «Qualunque cosa vi dica, fatela» (v. 5). Il segno riguarda dunque Gesù e la sua identità.

Ambientazione vv. 1-2

I versetti ci introducono nel racconto con una nota temporale: tre giorni dopo; la circostanza: un matrimonio; il luogo: Cana di Galilea; i personaggi: la madre di Gesù, Gesù ed i suoi discepoli. Nel prosieguo della narrazione appariranno anche dei servi (v. 5) ed un maestro di tavola (v. 9). Il fatto che il narratore collochi la madre al primo posto nell’elenco dei personaggi, suggerisce il ruolo cruciale che svolgerà nello sviluppo della trama.

Nel quarto vangelo incontriamo la madre di Gesù in questo contesto, in 6,42 e in 19,25-26, ai piedi della croce: in nessuna ricorrenza è utilizzato il suo nome, Maria. Come per il ‘discepolo amato’, Giovanni intende forse indicare che la sua identità e il suo ruolo sono definiti soltanto in rapporto a Gesù e insieme vuole creare uno spazio aperto che ogni lettore è invitato a colmare con la propria vita: ognuno di noi è chiamato a riscoprirsi ‘il discepolo amato’ e a divenire ‘Madre’ generando il Cristo nella propria storia.

Il racconto sembra essere in funzione dei discepoli. Leggendo Gv 1,35-51 possiamo conoscere i loro nomi: essi sono Andrea, Simone, Filippo, Natanaele, e un discepolo anonimo. Il nostro brano non ricorda i loro nomi, non segnala nessuna parola o azione compiuta da loro: eppure la loro presenza è segnalata all’inizio (v. 1) ed alla fine della pericope (vv. 11- 12)1. Il segno è per loro, perché credano in Lui e credendo scendano con lui verso Cafarnao (vv. 11-12).

Il tutto avviene ad una festa di nozze: sullo sfondo dell’Antico Testamento questa collocazione è importante dato che la metafora sponsale è spesso utilizzata come simbolo dell’alleanza tra Dio ed il suo popolo (cfr. Is 54,4; Ger 2,2.20; Ez 16,1-43). Ma in questa celebrazione qualcosa non va per il verso giusto: viene a mancare il vino.

Manca il vino: vv. 3-5

La madre nota questa situazione imbarazzante e la presenta a Gesù: «Non hanno vino» (v. 3). Non è chiaro che cosa Maria si aspetti, ma è chiara la sua fiducia nella potenza del Figlio. La risposta di Gesù crea un certo disagio nel lettore: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (v. 4). Tradotta in forma letterale – «Che a me e a te, donna?» – la sentenza traccia una vera linea di demarcazione tra Gesù e la madre. La ragione è l’ora, un’ora non ancora giunta, verso la quale tutta l’esistenza di Gesù è protesa. È un’ora di morte (cfr. Gv 7,4.30; 8,20), di glorificazione (cfr. Gv 12,23; 13,31), di ritorno al Padre (cfr. Gv 13,1.32; 17,5). Le parole di Gesù esprimono dunque che egli esiste in funzione della missione affidatagli dal Padre: nessun’altra realtà o persona può interporsi nel suo rapporto di amorevole obbedienza a Lui.

In questa luce la reazione della madre sorprende: «Qualunque cosa vi dica, fatela» (v. 5). Non risponde direttamente al Figlio: smette di parlare come madre e comunica ai servitori la sua totale fiducia di discepola. Così facendo sembra sfidare Gesù a prendere coscienza che è giunto il momento di agire, di camminare verso la realizzazione della propria missione. La madre si rivolge ai servitori con un appello ad un’apertura totale verso la Parola del Figlio. Non conosce ciò che Gesù dirà ma crede in Lui.

Nel contesto di un vangelo scritto perché i discepoli di ogni tempo possano «credere» (20,31) e che pone nel «credere» là possibilità di divenire «figli di Dio» (1,12), Maria è proposta al lettore come la prima credente, la prima a porre una fiducia incondizionata nella Parola fatta carne (1,14).

L’azione trasformatrice: vv. 6-8

Il v. 6 introduce il racconto del miracolo con una descrizione estremamente dettagliata: sei anfore di pietra utilizzate per la purificazione dei Giudei, «contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri». Il loro numero, sei, potrebbe indicare mancanza rispetto alla perfezione del numero sette: possono contenere una quantità enorme d’acqua, possono offrire uno strumento di purificazione… ma sono vuote! I vv. 7-8, dove Gesù dà due ordini prontamente eseguiti dai servi, segnalano al lettore che solamente l’obbedienza alla Parola riempie le giare, purifica e salva. Diventa chiaro che da ora la purificazione dipende dalla sua parola. La constatazione del maestro di tavola al v. 10 confermerà questa sorprendente novità.

Constatazione del maestro di tavola: vv. 9-10

Il v. 9 introduce nella narrazione una figura nuova, quella del maestro di tavola. Il testo sottolinea che «non sapeva da dove venisse» il vino, non ne conosceva l’origine. Ritorna qui un tema caro a all’evangelista Giovanni (cfr. 3,2; 7,28-30; 16,27.28.30; 17,8; 18,37): il Prologo rivela l’origine di Gesù-Parola (1,1-3), un’origine non riconosciuta dai ‘suoi’ (1,11). Nella prima settimana del suo ministero Giudei e discepoli non comprendono la relazione tra il Battista e Gesù (1,19-20), perché non conoscono l’origine dell’Agnello di Dio (1,29-31). Ora, il narratore osserva che anche il maestro di tavola non conosce l’origine del vino e per questo fa chiamare lo sposo nel tentativo di capire (vv. 9-10).

Lo sposo non apre bocca: in questo contesto, come altrove nel racconto, è una figura evanescente. Giovanni vuole forse sfumare lo sposo umano, per fissare l’attenzione del lettore sullo sposo vero, su Colui che procura il vino per le nozze: Gesù. L’identificazione di Gesù come sposo sarà esplicitata poco più avanti, in 3,29, nelle parole del Battista:

Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire.

Come nella tradizione sinottica, l’immagine della festa di nozze evoca la gioia messianica recata dalla presenza del Messia Gesù: «possono forse digiunare gli invitati alle nozze mentre lo sposo è con loro?» (cfr. Mc2,19; Mt 9,15; Lc 5,34).

Notiamo infine che il commento del maestro di tavola pone in relazione il vino buono conservato finora con un’ora che non è ancora giunta, ma inizia a manifestarsi. C’è un oltre, un non ancora, una pienezza che sarà rivelata a chi continuerà a credere nella parola dello Sposo.

Il commento finale: v. 11

Nel v. 11 il narratore inserisce un commento rivolto al suo lettore: «questo fece Gesù come primo dei segni in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Il segno è posto per manifestare la gloria di Gesù, il suo essere Figlio di Dio (cfr. 1,14). Il segno di Cana presenta Gesù come il creatore di un vino buono, nuovo, abbondante, nettamente diverso dal primo e che giunge quando il primo sta per finire2.

Poiché Gesù offre una quantità straordinaria di vino nel contesto di un banchetto nuziale, il lettore comprende che in Lui abbiamo l’avvento dei tempi messianici: colui che dà il vino è lo sposo-messia. Il vino rappresenta dunque il dono messianico per eccellenza, identificato con Gesù stesso: unicamente il suo vino è capace di purificare e di salvare. In altri termini, il vino offerto a Cana simboleggia la sua parola rivelatrice, definitiva, che porta a compimento la legge antica. Per questo le sei giare sono riempite «fino all’orlo».

A riprova di questa identificazione è interessante notare come nel testo la bontà del vino è descritta dall’aggettivo kalós, «buono/bello», il medesimo utilizzato per descrivere la qualità di Gesù, buon pastore che realizza tutte le attese di Dio (10,1). L’abbondanza ed eccellenza del vino esprimono dunque l’abbondanza ed eccellenza del dono che Gesù è; il fatto che quel vino arrivi soltanto alla fine del banchetto svela che Gesù è veramente la «pienezza della grazia e della verità» (1,14). Gesù, la Parola fatta Carne, si gusta nell’acqua fatta vino. Quando l’ora di Gesù si compirà nella sua elevazione sulla croce, quel vino avrà il sapore della sua vita immolata per la nostra salvezza.

La seconda parte del v. 11 indica la ragione del segno: «i suoi discepoli credettero in/verso Lui». Mi sembra opportuno approfondire il significato di questo verbo che ricorre ben 98 volte nel quarto vangelo, dove è stranamente assente il sostantivo «fede». Credere per Giovanni non è uno stato, ma un processo dinamico. L’associazione costante con la preposizione eis (= verso) suggerisce la dinamicità della relazione: credere è rimanere nella relazione con una Parola che ci incontra, ci mette in discussione, si propone alla nostra accoglienza ed alla quale siamo chiamati a rispondere in un cammino di sequela perseverante.

In questa prospettiva comprendiamo il significato della presenza di Maria: essa non si sovrappone al figlio; è disposta a lasciargli il campo. Non conosce la risposta, ma continua a camminare nella fede, educando alla fiducia incondizionata nei confronti di Gesù. Per questo, nel v. 12 è ribadita la sua presenza quando i discepoli muovono i primi passi seguendo il Cristo. La precisazione del narratore, che essi rimasero a Cafarnao «pochi giorni», evita la chiusura della narrazione. Essa rimane sospesa verso un compimento che sarà offerto al lettore ai piedi della croce, quando Maria ritornerà al fianco dei discepoli, per essere offerta dal Figlio come Madre e custode dei credenti.

A Cana, dunque, Gesù crea il popolo dei suoi discepoli: essi sono la primizia della comunità messianica fondata nella relazione con Lui. Le parole della Madre sono una eco delle parole de popolo di Israele, quando ai piedi del monte Sinai accolse il dono della Legge: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo» (Es 19,8; 24,3.7). Pronunciando il suo Israele diviene la sposa del suo Dio: «Io stesi il lembo del mio mantello su di te…, giurai alleanza con te… e divenisti mia» (Ez 16,8). A Cana, la madre invita anche noi, comunità dei discepoli del Risorto, a percorrere la medesima strada, per divenire amici dello sposo (3,29) ed essere introdotti alla mensa nuziale (Ap 19,7-9).


  1. Si tratta di una inclusione.
  2. Nel linguaggio profetico il vino esalta l’ebbrezza dell’incontro sponsale (Os 2,2-24; Is 62,5.8.9). Un rilievo particolare è dato dall’esultanza radiosa dei tempi escatologici: quel giorno saranno allietati da un vino straordinariamente abbondante (Am 9,13-14; Ger 31,12; Gl 2,19.22.24), di qualità sopraffina (Os 14,8; Is 25,6; Zc 9,17) e di intensa gratuità (Is 55,1). Il Cantico dei Cantici utilizza ripetutamente la metafora del vino per dichiarare l’attrazione che l’Amato e l’Amata nutrono l’uno per l’altra (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2). La letteratura giudaica interpreta talora il vino come metafora della Torah (= Legge): per offrire un esempio, in un Targum di Ct 2,4 il monte Sinai è chiamato «cantina del vino».

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