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Dio è per noi rifugio e fortezza

Salmo 46

Nel salmo 46 la comunità della «città di Dio» professa la propria fiducia nel Signore che l’ha liberata dal pericolo mortale di capitolare a causa di un assedio. Infatti, la situazione immaginata dal poeta è di una città cinta d’assedio, come avvenne nel 701 a.C. quando il re assiro Sennacherib dopo aver circondato con le sue truppe Gerusalemme, desistette improvvisamente per ritornare in patria; ciò fu salutato come opera liberatrice del Dio di Israele (2 Re 18,13 – 19,37). Per questa ragione molti esegeti hanno annoverato il salmo tra i canti di Sion, ma lo si potrebbe anche interpretare come un canto di fiducia, fondata sull’esperienze di salvezza vissute dal popolo di Dio.

Il salmo si articola in tre strofe, nettamente distinte da un ritornello ripetuto nei versetti 8 e 1 2) e che alcuni esegeti vorrebbero inserire anche dopo il v. 41. Nella prima si canta la protezione sperimentata nelle catastrofi naturali (vv. 2-4); nella seconda quella davanti agli sconvolgimenti politici (vv. 5-8); nella terza la liberazione dalla tragedia della guerra (vv. 9-12). Lo sviluppo del salmo si articola più in immagini che secondo un processo logico: ai simboli del caos, dei marosi rumoreggianti, della guerra totale, si contrappongono i simboli della città sicura, delle acque tranquille, del disarmo totale. Tutti gli uomini sono posti di fronte al Signore. La comunità in preghiera confessa di trovare solo in lui la propria sicurezza.

Come è per la maggior parte dei salmi il v. 1 coincide con la sovrascritta. Da notare che gli editori del salterio probabilmente hanno voluto creare un legame con i salmi circostanti (cfr. Sal 43-45.47-49). Tutti questi salmi sono chiaramente di genere letterario diverso, ma hanno in comune un mondo immaginario fatto di monti, acque turbolente e maestose, probabilmente ispirato dal paesaggio del nord di Canaan. C’è poi l’espressione enigmatica ꜥal-ꜥᵃlāmôṯ che si può intendere «sul motivo dell’inno delle fanciulle» oppure da cantarsi «con voci di soprano» o «con voci alte». Probabilmente è un’indicazione musicale o un’aria papolare.

Quando la natura sembra impazzire

L’attacco del Salmo al v. 2 è una professione di fede della comunità di Israele: il Signore è riconosciuto come “rocca/rifugio”, “fortezza” e “aiuto” (cfr. Dt 4,29; Is 55,6; 65,1). Le immagini rimandano all’assedio di una città, quando gli assediati confidano che le mure della fortezza o della rocca, dove si sono rifugiati, resistano agli assalti del nemico fino al desistere di quest’ultimo. Come già ricordato qui forse si fa allusione all’assedio di Sennarcherib. C’è da osservare comunque che da quando era stato salvato dalla schiavitù dell’Egitto, il popolo di Israele sperimenta il suo Signore come un Dio che continuamente protegge e libera dai nemici.

Con il v. 3 le immagini ci riportano agli albori dell’umanità, quando il mondo era stato minacciato dal diluvio. Davanti alla possibilità che il cosmo possa nuovamente precipitare nel caos, per effetto del trasformarsi della terra nel suo contrario e della caduta dei monti nelle acque del caos che la circondano, la risposta della comunità credente è lōʾ-nı̂rāʾ, «non temiamo». Essa resta salda nella fede in Dio nonostante la situazione o le situazioni avverse; resta salda di fronte al frastuono del caos che fa rumoreggiare paurosamente la furia delle acque (v. 4a), tanto che, come un terremoto, tremano i monti (v. 4b).

Gli sconvolgimenti sociali

Al frastuono delle acque del caos il v. 5, inizio della seconda strofa, contrappone l’immagine della «città di Dio» (ꜥı̂r-ʾᵉlōhim). Il poeta non dice di più sulla sua identità anche se molti esegeti l’identificano con Gerusalemme e in particolare con la sua rocca, Sion. Essa è immaginata collocata sul monte santo, il monte degli dei (una sorta di olimpo). È il monte che sovrasta il mondo, sopra il quale sorge continuamente il sole che riporta la vittoria sulle tenebre e consegna il mondo alla luce salvifica del mattino.

Le acqua del caos non sono solo disperse dal Dio creatore, ma trasformate in acque di vita. Nell’immaginario poetico diventano un fiume, i cui canali – termine probabilmente che esprime l’acqua corrente2 – allietano la città, i suoi abitanti e il territorio circostante. Il fiume ha la sua origine nel cuore stesso della città di Dio, là dove c’è la santa dimora dell’Altissimo (v. 5b).

La sorgente del fiume di vita è Dio stesso che non dimora fuori o sopra la città, ma «in mezzo ad essa» (bᵉqirbah, v. 6a ). Di conseguenza il caos che si agita tutt’intorno ad essa non le recherà alcun male, anzi esso sarà dissolto come le tenebre ai primi raggi del sole (v. 6b).

Il v. 7 rilegge la professione nel Signore “sorgente di vita e di luce” nella storia del popolo: le nazioni che si erano alleate contro la «città di Dio» per assediarla, sono loro a vacillare, come i monti dal v. 3. È sufficiente il tuono di Dio perché la sicumera degli assedianti si sgretoli come la terra. Il poeta orante pesca a piene mani nella mitologia cananea e così “nel tuono” il Signore, Dio di Israele, è raffigurato nelle vesti del Dio del temporale e signore dei nembi, Baal, e come tale è sufficiente la suo voce (qôl) per mettere fine all’assalto del caos della guerra.

Il ritornello del v. 8 e 12 chiama in causa nuovamente la comunità credente che qui si autopresenta come discendenza di «Giacobbe»; è forse un’allusione alla salvezza che l’antico patriarca sperimentò sul far del mattino, dopo aver lottato tutta la notte (cfr. Gen 32,27.32)? Dio è professato come «Signore degli eserciti», titolo legato in origine all’arca e poi passato al tempio del Signore, ma anche come «Dio con noi» (cfr. Is 7,14) e «nostro baluardo». Quest’ultima espressione raffigura Dio come una rocca/rifugio posta sulla sommità di un colle inaccessibile, come è appunto la rocca di Sion.

L’arco spezzato e la lancia frantumata

La strofa inizia con due imperativi, «Venite, guardate» (v. 9a), rivolti ai popoli e ai loro re. Ora, fatte deporre le armi con le quali volevano assediare la città di Dio, da quest’ultimo sono invitati a venire a vedere le meraviglie del Signore, così da trarne le debite conseguenze.

Il v. 10 esplicita le opere del Signore che essenzialmente consistono nel far cessare il caos della guerra. Quindi Dio «rompe» gli archi di guerra, le armi più pericolose del tempo perché le frecce colpivano da lontano; al tempo stesso l’arco è simbolo di potere e di potenza (cfr. Gen 9,13-15; Ger 49,35). Poi fa a pezzi le lance, probabilmente ci si riferisce alle punte in ferro; infine brucia i famigerati carri da guerra3.

Tutto questo avviene attraverso un processo di riconoscimento, dove Dio o chi per lui si rivolge direttamente ai re e ai popoli invitandoli a fermarsi e a riconoscere che il Dio di Giacobbe è il Signore (v. 11a), l’unico re di Israele e delle nazioni (v. 11b) che dalla sua città si propone per tutti come «sorgente della vita».

Al v. 12 si ripete il ritornello, ma ora la comunità credente non lo recita solo per se stessa ma a nome di tutte le nazioni e così si accordano insieme Israele e le nazioni. Quando gli uomini non si lasceranno più infettare dal virus della potenza del caos, accogliendo la signoria del Dio di Sion ordinatore del caos, le guerre perderanno la loro ragion d’essere e il loro spaventoso fascino.

Fino a quel momento il salmo 46, cantato dalla comunità credente di Israele e della Chiesa, terrà desta questa speranza e anticiperà nel tempo degli uomini la signoria del Dio della pace.


  1. Cfr. L. Alonso Schökel – C. Camiti, l Salmi l, 749.
  2. Avere acqua corrente era un privilegio e molto più salutare delle acque di cisterna.
  3. La versione della CEI seguendo la LXX traduce con «scudi».
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