Quanto è buono Dio!

Salmo 73

Il Salmo 73 (vedi testo) non si lascia facilmente incasellare in uno degli schemi classici: ci sono motivi che richiamano il lamento, altri il ringraziamento, altri ancora i tratti dei testi sapienziali. L’autore si interroga sulla prosperità dei malvagi e sull’impatto che questo ha sulla sua fede. Afferma che Dio è buono con Israele e dichiara di voler tener fede a questa affermazione; constata, però, che gli empi sembrano essere felici mentre i timorati di Dio gustano l’amarezza della sofferenza. Tutto questo l’ha gettato in un profondo conflitto, da cui esce con una “nuova” conoscenza di Dio che gli permette di vedere la propria vita e quella di tutti i credenti in modo diverso.

Per questo il salmo può essere inteso come una professione di fede nata da una crisi della stessa che diventa occasione di testimonianza e confessione per altri.

La divisione del salmo non è facile. Un punto fermo è il v. 17 che segna un cambio di tonalità del compatimento. Si può riconoscere nei vv. 1 e 27-28 un prologo e un epilogo che si richiamano tra loro grazie all’espressione «buono per…». Il corpo poi del salmo presenta un andamento tripartito: disorientamento del salmista (vv. 2-12), esperienza risolutiva (vv. 13-17), riscoperta della fede e di un nuovo modo di approcciarsi alla vita (vv. 18-27).

Preludio

Il primo versetto è una confessione di fede tradizionale sulla bontà di Dio. Essa si manifesta nei confronti del suo popolo, grazie alla storia di elezione, e in particolare nei confronti di chi ha il cuore sgombro da pensieri reconditi e cerca di vivere la volontà di Dio. Da notare che il testo ebraico ha l’espressione «Dio è buono per Israele» (lᵉyiśrāʾēl) che molte traduzioni moderne tendono a modificare in «Dio è buono per gli uomini retti» (layyāšor ʾĕl). Le versioni antiche seguono il testo ebraico e così facciamo noi. Tale professione di fede cozza con l’esperienza che sta vivendo il salmista. Infatti, egli confessa che c’è mancato poco perché rinnegasse Dio e la sua bontà (v. 2). Tutto ha avuto inizio quando si è lasciato ammagliare dalla vita piena di successo e apparentemente priva di difficoltà degli empi (v. 3).

I malvagi prosperano: vv. 2-12

I versetti sono la descrizione del disorientamento in cui era precipitato l’orante. Quello che egli vede (rāʾâ del v. 3) stride con l’affermazione iniziale. Gli empi scoppiano di salute (v. 4); le malattie sembrano non avere alcuna prese su di loro, neppure quelle dell’anima come l’ansia dei comuni mortali (v. 5). Il fatto di sentirsi invincibili scatena in loro l’arroganza del potere (v. 6). Ricorrendo ad una immagine forse comune del tempo, ma non solo, ritrae egli empi così pasciuti che gli occhi sono infossati nel grasso, mentre il loro sguardo fa trasparire i folli pensieri di una arroganza indicibile (v. 7). Quando aprono bocca (v. 8) sono di una sfrontatezza tale che si fanno beffa di tutto e tutti, tanto che il loro eloquio è portatore di un male radicale (testo ebraico: ḇᵉrāꜥ) oppure di una profonda ingiustizia (testo della Lxx: ἀδικία). Tanta e tale è la loro sicumera che discettano con presunzione su qualsiasi tema. Al v. 9 il merismo cielo e terra esprime l’universo intero e tutta la conoscenza.

Il v. 10, di difficile lettura, può essere inteso così: il discettare degli empi su qualsiasi argomento con la pretesa di avere l’ultima parola, invece di essere motivo di biasimo, è la ragione del loro successo perché molti del popolo si bevono letteralmente quanto dicono. L’ostentata sicurezza arriva a sentenziare che Dio non ha tempo di badare alle faccende gli uomini. Questo è un motivo ricorrente nella bocca degli stolti e degli arroganti (cfr. Sal 10,11; 94,7; Gb 22,13-14; Sir 23,18; Is 29,15; Ez 8,12; 9,9).

La conclusione sconsolata del salmista è che l’adagio tradizione «Il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina» (Sal 1,6) è radicalmente negato da quanto egli vede.

Chi me lo fa fare?: vv. 13-17

Dopo la descrizione di quanto «vede» l’orante, c’è ora la sua reazione: si potrebbe sopportare che i malvagi prosperino se così fosse anche per i giusti, ma ciò che scandalizza è che questi ultimi se la passano male, anzi sono costretti a sacrifici che non portano ad alcun risultato. C’è una sorta di confronto nei vv. 13-14: gli empi «non soffrono», mentre egli «soffre tutto il giorno» (v. 5 e 14); i disonesti si vestono e si adornano di superbia e violenza, l’onesto si lava le mani e il cuore (v. 6 e 13); i malvagi si sentono «sicuri» nella loro condotta, l’uomo timorato di Dio si consuma in una sorta di lotta interiore (vv. 12 e 14).

Il salmista è preso da una violenta invidia e vorrebbe lasciarsi andare e così abbracciare la scelta degli empi. Quello che lo trattiene è il tradimento dei «tuoi figli». Dove per figli è inteso il popolo di Israele. C’è qui un passaggio dalla terza persona singolare al “tu” che è il Dio di questi figli, il suo stesso Dio. Resta l’interrogativo di come conciliare l’amore di Dio in favore dei suoi figli con quanto l’orante stesso sperimenta? C’è in lui il tentativo di una riflessione che però gli appare ardua perché non scioglie il dramma che sta vivendo (v. 16), come lo stesso Qoelet sperimenta: «Ho visto che l’uomo non può scoprire tutta l’opera di Dio, tutto quello che si fa sotto il sole: per quanto l’uomo si affatichi a cercare, non scoprirà nulla. Anche se un sapiente dicesse di sapere, non potrà scoprire nulla» (Qo 8,17).

Al v. 17 il salmista, deluso e in procinto di apostatare, segnala una svolta con parole enigmatiche: «Allorquando non entrai nei santuari di Dio e compresi quale sarà la loro fine». L’espressione al plurale «santuari di Dio» fa riferimento al suo mistero (cfr. Sap 2,22) 1. Davanti ad esso si fa chiara la questione che ciò che resta alla fine è Dio, in quanto l’unico capace di porre un termine a tutte le cose. Di conseguenza, il Signore ha posto una fine anche agli empi che sarà diversa da chi è puro di cuore (cfr. v. 1). Il salmista ha staccato il proprio sguardo dagli empi e dalla loro apparente felicità per indirizzarlo a Dio.

Una nuova consapevolezza vv. 18-28

Con il linguaggio della confessione il salmista testimonia quanto gli occhi della fede gli hanno rivelato. Tutto è capovolto: i malvagi agli occhi della “carne” sembrano aver intrapreso una via sicura e ricca di soddisfazioni, in realtà stanno camminando in luoghi scivolosi, incapaci di fermarsi fino alla loro totale rovina (v. 18). La paura che prima aveva avvinghiato il salmista ora schiaccia gli empi (v. 19) ed è la paura della morte. Tutto il loro potere, fama e sfrontatezza sono evanescenti come i sogni dopo il risveglio (v. 20) e riandando ai giorni buoi della crisi, che aveva reso amara la vita dello spirito, il salmista confessa che il suo atteggiamento di allora era stato di una stupidità bestiale2, perché anch’egli stava per dare ragione agli altri, rassegnandosi a vivere davanti a Dio come una bestia, senza pensare e quindi senza ascoltare e parlare (vv. 21-22).

Il linguaggio si fa ora confidenziale perché non è solo questione di conoscenza, ma di una nuova relazione con il “Tu” di Dio, espressa da un triplice «con te» (ꜥimmāḵ). Considerando le cose dal versante di Dio, egli percepisce che il suo futuro destino è garantito da Dio stesso che non l’ha mai abbandonato, anzi, soprattutto nella prova, l’ha tenuto per mano e guidato (v. 23). Quindi alla fine lo accoglierà nella gloria, tanto che la morte non è più un limite a questa speranza (v. 24).

Dopo la prova il salmista ritrova la sua vita piena della presenza di Dio e così non chiede più niente né al cielo né alla terra (v. 25). I problemi non sono scomparsi: continuano a mancargli le forze, tuttavia ha fatto un’esperienza tale della vicinanza e della forza di Dio, che tutto il resto diventa superfluo. Il Signore si è mostrato la roccia su cui costruire una vita sicura (v. 26).

A conclusione della preghiera, nell’epilogo (vv. 27-28), il salmista traccia un bilancio di quanto vissuto. Se in precedenza, al v. 12, l’aveva fatto con una valutazione provvisoria e soprattutto falsata dall’apparenza di quanto aveva visto, ora può constatare che una esistenza lontana da Dio, seguendo l’idolatria3, porta alla rovina (v. 27), mentre la vicinanza a Dio apre alla vita e alla felicità. È la strada imboccata dall’orante (cfr. v. 17) che adesso, per gratitudine a Dio, la testimonia a tutta la sua comunità (v. 28c).


  1. Cfr. ALONSO SCHÖKEL L. – CARNITI C., I Salmi. Volume secondo (Commenti biblici), Borla, Roma 1993, 19.
  2. Il termine bᵉhēmâ designa propriamente l’ippopotamo.
  3. C’è il verbo prostituirsi con cui si designa l’idolatria.

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