Se tu squarciassi i cieli e scendessi!

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Nella prima domenica di Avvento dell’anno B ci viene proposta come prima lettura un’accorata e intensa preghiera tratta dalla sezione finale del libro del profeta Isaia, denominata Terzo Isaia (Is 56 – 66). In essa risuona l’eco delle liturgie celebrate dai primi esuli ebrei rientrati in Palestina dall’esilio babilonese dopo l’inatteso editto di Ciro (538 a.C.). Si viene introdotti nella psicologia di persone che vivono un momento di forte afflizione e la esprimono attraverso la supplica e il proposito di conversione.

Il brano è costruito secondo lo schema dei salmi penitenziali o delle lamentazioni collettive, delle quali costituisce una delle attestazioni più complete e più intense per forza letteraria e teologica. È una preghiera al plurale nella quale l’autore dà voce al popolo tornato dall’esilio, mettendo sulla sua bocca una lunga pressante domanda a Dio per sollecitare un suo intervento (63,19b; 64,11), ma anche per una confessione dei propri peccati e una professione di fiducia (63,15-16). Ecco il brano:

¹⁶ Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. ¹⁷ Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità.
¹⁹ Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. ² Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti. ³ Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui. ⁴ Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. ⁵ Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
⁶ Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. ⁷ Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

Tu sei nostro padre

Per evitare fraintendimenti con la paternità fisica attribuita agli dèi nel religioni antiche, l’Antico Testamento preferisce raffigurare l’uomo piuttosto come “creatura” di Dio (cfr. Gen 1 – 2) che come suo “figlio”. Solo dopo l’esilio babilonese si incomincia a chiamare Dio col nome di padre e lo si concepisce come un padre vivo, che sa, vede, redime. In questa preghiera la comunità fa forza sulle sue corde paterne e giunge a muovergli un’accusa in tono familiare: gli rimprovera di aver permesso ad Israele di allontanarsi da lui e gli ricorda gli impegni che egli stesso si era preso e che ora sembra smentire: «Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie?».

Singolare risulta la richiesta, rivolta al Signore, di «ritornare» (šûḇ). Si tratta di un verbo che solitamente ricorre sulla bocca di Dio per chiedere all’uomo la conversione e il cambiamento di vita, ma in questa preghiera sono gli uomini a chiedere al Signore di cambiare atteggiamento «per amore dei tuoi servi», della sua «eredita». La preghiera introduce anche un affettuoso ricatto: abbiamo sentito raccontare tutte le cose che tu hai compiuto per i nostri padri negli anni lontani. Ora invece sei adirato, ci hai nascosto il tuo volto. Dov’è la tua misericordia? Puoi ancora restare insensibile? Taci e ci umili senza misura?

Ci hai messi in balia delle nostre iniquità

Queste domande e queste accuse esprimono la certezza che l’esistenza di un singolo e quella dell’intero popolo dipendono a tal punto dalla misericordia di Dio che, se essa viene meno, è perduta ogni speranza. Nella preghiera cresce la consapevolezza che la punizione, riversatasi in modo così terribile sul popolo negli anni della distruzione di Gerusalemme e dell’esilio, è stata provocata dall’infedeltà e dalle prevaricazioni d’Israele. Ci si rende conto che i peccati e le loro inevitabili conseguenze fanno tutt’uno. Se egli ci ha lasciato vagare lontano è per una colpa che ora viene umilmente riconosciuta: «Abbiamo peccato contro di te!».

È stata l’empietà a spezzare il legame con la fonte della vita e a provocare l’impurità, descritta con un lessico e con immagini colorite: siamo divenuti come uno straccio sporco, come foglie secche portate via dal vento. Il Terzo Isaia lancia un’ipotesi appassionante: il Signore non è venuto meno alla sua misericordia neppure di fronte ai nostri peccati. Il suo silenzio va interpretato come una «tattica» che egli ha adottato per ricondurre a sé Israele.

Se tu squarciassi i cieli e scendessi!

La supplica penitenziale passa ad esprimere un desiderio attraverso un’espressione che è divenuta una specie di marchio identificativo del tempo di Avvento. Si chiede al Signore che si manifesti con potenza, a lui si leva un lamento come appello perché si ricordi del suo popolo. Il suo manifestarsi darà sostegno alla nostra risposta di conversione, ci metterà in cammino alla ricerca di lui: «non vagheremo più lontano dalle tue vie», «praticheremo la giustizia e ci ricorderemo delle tue vie» (64,4).

La preghiera si conclude chiedendo che, nonostante i peccati passati, il Signore ci offra ancora una possibilità di vita. Ne nascere una cosa nuova: noi vogliamo essere docili nelle tue mani e lasciarci plasmare da te, perché tu possa dare a noi la forma buona, a patto che ci lasciamo plasmare ed educare da te. Nascere allora la nuova creatura, di nuovo plasmata come al momento della creazione dalle dita esperte del Signore e dal suo soffio vitale: «noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma» (64,7).
La supplica viene rafforzata da un motivo che è destinato a commuovere Dio: noi siamo tuo popolo! All’invocazione «guarda!» fa da parallelo una supplica: «Ritorna!», ambedue fondate sulla certezza di essere «tuoi servi», quantunque ribelli.

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