Alzati va’ a Ninive

In questa terza domenica del tempo ordinario la prima lettura è tratta dal terzo capitolo del libro di Giona (qui il testo: Gio 3,1-5.10). È importante prima di procedere dare alcune notizie sul quadro storico in cui nasce il libro.

Nel 538 a.C. il re persiano Ciro permette agli esiliati di Gerusalemme di tornare nella loro città e ricostituire la loro società, che peraltro non aveva mai cessato di esistere dopo la caduta della città.

Alcuni eventi significativi scandiscono i primi secoli del post-esilio. Il primo è l’instaurarsi di una teocrazia come struttura interna di governo. Improvvisamente, attorno al 520 a.C., Zorobabele, il governatore discendente dalla famiglia di Davide, scompare dal radar della storia. Rimane solo il sommo sacerdote Giosuè. La famiglia dei Sadociti non ha grande potere e cerca perciò di stabilire alleanze esterne. Così, per circa un secolo prende piede un atteggiamento di apertura, testimoniato anche in alcuni testi profetici. Il tempio diventa casa di preghiera per tutti i popoli. Ci sono anche matrimoni misti, e si indebolisce l’osservanza di alcune tradizioni distintive dell’identità nazionale.

Questa prospettiva rischia però di rendere Israele indistinguibile in mezzo agli altri popoli. Ecco quindi il secondo significativo evento: tra gli Ebrei rimasti a Babilonia nasce e si rafforza un movimento di reazione. Neemia prima, a livello politico ed amministrativo, ed Esdra poi, a livello religioso, compiono l’opera di ristabilire i segni che mostrano l’unicità del popolo eletto. Si riprende l’osservanza del sabato, vengono rimandate le mogli straniere e i loro figli, la legge di Mosè, che il sacerdote Esdra legge al popolo, diventa la pietra di paragone dell’identità giudaica del post-esilio.

È in questo contesto che probabilmente si deve collocare il libro di Giona. Esso dà voce ad una reazione contro le chiusure caratteristiche del secondo periodo sadocita, argomentando in favore della estensione universale dell’amore misericordioso di Dio.

L’autore crea un racconto che ha come protagonista Giona figlio di Amittài, di Gat-Chefer, un profeta realmente esistito nel secolo VIII a.C., citato in 2 Re 14,25, e che nella narrazione sembra vibrare dello stesso spirito di rivalsa che caratterizza Naum, il cantore della distruzione di Ninive.

Dio si rivolge a Giona

Il testo odierno, tratto dal terzo capitolo dell’opera, narra la predicazione del profeta alla città e l’insperato, anzi, per nulla desiderato effetto positivo. Di più: nei versetti non letti (cfr. Gio 3,6-9) vengono descritte, con toni perfino surreali, le misure penitenziali ordinate dal re, al punto da far digiunare perfino agli animali.

L’inizio del cap. 3 è intenzionalmente parallelo alle prime parole del libro, quasi ad indicare una seconda chance offerta al disobbediente profeta dopo il naufragio. Di fatto, nel cap. 2, Giona prega il Signore di essere salvato dagli abissi di morte in cui si trova; anche se in quel testo non si trova nessuna ammissione di colpa, e la situazione disperata del profeta sembra un fatto accidentale. Egli non ha niente da rimproverarsi.

La parola di Dio dà a Giona due ordini: innanzitutto andare a Ninive, e poi proclamare là «quello che ti sto dicendo». Il Signore insiste e fa ripetere al suo profeta l’esercizio mal riuscito la prima volta. Occorre notare la sua pazienza, ad un tempo delicata e ferma. Dio non rimprovera, non si adira, ma ciò non vuol dire che il profeta abbia ragione. Per questo deve «andare» e «proclamare»: Dio non cambia il progetto che ha pensato. Nello stesso tempo sembra non mostrare ancora tutte le sue carte: perché mai inviare là il suo uomo a preannunciare distruzione?

Questa volta Giona esegue immediatamente. Si direbbe anche che lo fa convinto, se la stessa laconicità del racconto non facesse dubitare il lettore: quello stesso Giona, che la prima volta era fuggito, sarà ora per davvero desideroso di far contento il Signore? Avrà davvero accolto il suo piano, peraltro non ancora chiaro?

Infatti, quanto Giona annuncia eccede l’istruzione iniziale («proclama che la loro malvagità è salita fino a me»). Il profeta presenta una distruzione prossima, che è una delle possibili conseguenze di quanto Dio gli chiedeva allora di denunciare. Soprattutto, non spiega le ragioni, né offre soluzioni che possano evitare il dramma imminente. In tal modo l’annuncio rende solo più angosciante l’attesa dell’inevitabile castigo. Non sembra davvero che Giona abbia cambiato idea.

La reazione dei Niniviti è corale, quindi affatto sorprendente, soprattutto tenendo conto della famosa ferocia degli Assiri. Essi riconoscono le loro colpe, decidono di allontanarsi da esse, sperano nella clemenza divina. Nelle loro parole si intravvede la speranza che la conversione inneschi in Dio addirittura un processo speculare: che Dio si converta (il greco dei LXX ha proprio il verbo metanoêin, ripetuto in Gio 3,9 e in 3,10) e cambi il suo progetto di distruzione.

La conversione dei Niniviti e di Dio.

Questo è proprio quanto avviene e viene narrato nell’ultimo versetto del brano. Avviene nei Niniviti quella commozione del cuore, quella trasformazione interiore, visibile poi nella vita, che inaspettatamente provoca in Dio una mozione speculare, una conversione verso di loro. Attraverso il processo della conversione, il necessario convergere reciproco si svela come cifra del rapporto che lega Dio all’umanità. Egli si china su di essa, la chiama e solleva fino a sé, ne ha bisogno come un padre ha bisogno dei suoi figli, è attratto verso di essa in modo irresistibile. Un Dio che non può resistere a se stesso, all’impulso di amore che lo muove verso tutte le sue creature.

Questo è quanto progressivamente si svela nel racconto, questo è quanto Giona fin dall’inizio sapeva e non voleva accettare (Gio 4,1-3), anche a costo della vita. Difatti, al vedere la salvezza della città, chiede di morire, perché per lui è più facile accettare la morte che cambiare le sue idee sul rapporto privilegiato di Dio con Israele.

Il testo di Giona mette in risalto la potenza della parola di Dio, capace di dare un nuovo orientamento alla storia, e di suscitare energie impensate che portano ad una più profonda unione con lui. Inoltre, la Parola rivela l’intimo di Dio: il Creatore onnipotente si mostra e si trova vinto dal suo affetto verso ciascuna delle sue creature (cfr. Gio 4,4-11).

Paradossalmente – ma nel testo odierno questo si intravvede soltanto – il profeta si rivela come l’ostacolo più difficile da superare: egli sostituisce a Dio l’immagine che ha di lui, un’immagine dove fatalmente prende il primo posto un nazionalismo esclusivo; e alla fine ne resta così prigioniero da mettersi in opposizione a quanto Dio gli ordina di fare e gli rivela di sé. Giona profeta solo dei propri sogni.

Come il vangelo spiegherà con chiarezza, chi vuole mettersi al servizio del disegno di Dio deve seguire la sua chiamata, non farsene giudice; e gioire, piuttosto che rattristarsi, della sua misericordia verso tutti.

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